lunedì 26 ottobre 2009

Gli atti del Convegno della prima serata della Settimana Sociale Diocesana. La relazione di Mons. Paolo Doni

di Mons. Paolo Doni
Penso che nessuno si aspetti da me una lezione di sociologia su argomenti complessi e distanti delle mie competenze, come sono i temi dell’economia, del lavoro e della politica citati nel titolo generale. Questa prima serata corrisponde al primo passaggio metodologico: punta ad uno “sguardo in profondità” sulla crisi attuale.
Già il prof. Bruno Anastasia, economista, ha offerto una lettura dall’interno della crisi attuale, da competente. Interpreto il mio compito come quello di chi può dare “uno sguardo in profondità” alla “presenza dei cristiani” (e aggiungerei, delle comunità cristiane) in questa situazione di crisi. L’ evento che state celebrando infatti, la 70 Settimana Sociale della diocesi suggerisce che lo sguardo in profondità consista nell’ essere condotto “da cristiani”.

Stavo pensando a questa vostra richiesta e stavo cercando la porta più conveniente per “entrare” nel tema, quando sono stato preso di sorpresa, come tutti voi, dall’enciclica di Benedetto XVI “Caritas in Veritate” (CiV). M’è sembrata subito, infatti, una guida preziosa e autorevole. Pur senza rubare nulla alla presentazione dell’enciclica che farà con voi mons. Miglio, mi è sembrato opportuno cogliere qualche spunto, con attenzione specifica al metodo seguito dal Papa e, assieme a voi, cerco di ragionare ad alta voce.
Divido dunque la mia riflessione ad alta voce in due punti:

- La crisi attuale letta dalla Caritas in Veritate
- I cristiani e le comunità nella crisi.

1. La crisi attuale letta dalla Caritas in Veritate.
L’enciclica, la terza di Benedetto XVI, è un documento sociale. Come tale si pone sulla scia di tutti i documenti del magistero della chiesa in materia sociale (la DSDC) a iniziare dalla Rerum Novarum. Papa Benedetto ci tiene molto a sottolineare la continuità ditale insegnamento, anche se aggiornato di volta in volta al mutare dei tempi e delle questioni sociali. In particolare la nuova enciclica si pone in continuità con due grandi documenti, di cui vuole ricordare il 400 e il 20° anniversario: la Populorum Progressio di Paolo VI (1967) e la Sollicitudo Rei Socialis di Giovanni Paolo 11(1987). Il contenuto dell’enciclica è “sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità”, come recita il titolo. Non entriamo nel merito. Ciò che mi preme evidenziare è il metodo, l’approccio che il testo del Papa percorre per parlare dello sviluppo umano integrale. Approccio che è già accennato nel titolo: lo sviluppo umano integrale (ricordiamo come i due documenti celebrati avevano inteso e reclamato l’integralità dello sviluppo, come segno e garanzia della sua eticità, cioè alla sua finalizzazione al bene dell’uomo e della società) è riportato, come a propria chiave di lettura, al tema della carità, cioè della volontà di bene per l’uomo e, ancor di più, alla verità affermando e dimostrando che questo legame è l’ottica specifica, propria dei cristiani e della chiesa.. E’ proprio questo collegamento che costituisce la novità dell’enciclica. Benedetto XVI definisce anzi tutta la DSDC come “caritas in veritate in re sociali” (n 5).

Tutto il documento ruota attorno a due principi complementari:
- la fede cristiana, con il suo irrinunciabile fondamento biblico, non può non diventare carità, cioè ricerca del bene per il singolo come per la società degli uomini;
- Il “bene” delle persone e della società, non è pensabile, e tanto meno costruibile, all’infuori della carità e della verità, cioè all’infuori di un’etica fondata sulla verità dell’uomo e delle cose; in caso contrario anche l’etica sarebbe frutto di ideologie e\o di poteri e alla fine non costruirebbe il bene dell’uomo.
Partendo e intrecciando questi due principi il Papa individua “la parola che compete alla Chiesa e ai cristiani” sul mondo di oggi. E’ il problema delicato, già affrontato da Paolo VI e da Giovanni Paolo Il della competenza della chiesa, in re sociali.

Entrando nel vivo, l’enciclica parte da due argomentazioni che si intrecciano: una di carattere socio-culturale, l’altra di carattere ecclesiale-pastorale. Possiamo ripercorrerle velocemente evidenziandole separatamente..

La prima argomentazione entra nella lettura del momento presente, segnato dalla globalizzazione (“l’esplosione dell’interdipendenza planetaria”, n.3 3). Costituisce la vera e più significativa novità del momento storico che l’umanità sta vivendo. L’interdipendenza planetaria, dice, non è semplicemente un fenomeno geografico; non dice soltanto la dimensione dell’interdipendenza economica, ma è un fenomeno culturale, tale cioè da determinare l’impostazione e l’andamento della cultura attuale. Il tratto che maggiormente connota questa cultura dell’interdipendenza planetaria è quella che egli chiama “una nuova ideologia pratica: l’ideologia tecnocratica (n 14) che oggi si presenta in versioni diverse e contrastanti. Il Papa scrive: “Dall ‘ideologia tecnocratica, particolarmente radicata oggi, Paolo VI aveva già messo in guardia consapevole del grande pericolo di affidare i ‘intero processo dello sviluppo alla sola tecnica, perché in tal modo rimarrebbe senza orientamento. La tecnica, presa in se stessa, è ambivalente, Se da un lato, oggi, vi è chi propende ad affidarle interamente detto processo di sviluppo, dall ‘altro si assiste all ‘insorgenza di ideologie che negano in toto i ‘utilità stessa dello sviluppo, ritenuto radicalmente antiumano e portatore solo di degradazione. Così, si finisce per condannare non solo il modo distorto e ingiusto con cui gli uomini talvolta orientano il progresso, ma le stesse scoperte scientifiche, che, se ben usate, costituiscono invece un ‘opportunità di crescita per tutti. L ‘idea di un mondo senza sviluppo esprime sfiducia nell ‘uomo e in Dio. E’ quindi un grave errore disprezzare le capacità umane di controllare le distorsioni dello sviluppo o addirittura ignorare che 1 ‘uomo è costituzionalmente proteso verso i ‘ “essere di più “. Assolutizzare ideologicamente il progresso tecnico oppure vagheggiare i ‘utopia di un ‘umanità tornata all ‘originario stato di natura sono due modi opposti per separare il progresso dalla sua valutazione morale e, quindi, dalla nostra responsabilità. “(n. 14). In altre parole, l’ideologia tecnocratica esalta per alcuni, lo sviluppo e la ricerca di “avere sempre di più”, mentre giustifica per altri il permanere della povertà e del sottosviluppo. Lo sviluppo e il sottosviluppo invece, dice il Papa, dipendono da scelte fatte da uomini, non da fattori imponderabili e assoluti, dal destino o dalla fortuna, da fatalità; sono scelte che implicano sempre la responsabilità umana (n. 17); sono cioè scelte morali che uomini concreti compiono.

Le conseguenze di questa cultura globale segnata dall’ideologia tecnocratica sono constatabili su tutti i fronti e in tutte le parti del mondo. Sul versante economico: da una parte un accumulo senza limiti di beni economici, dall’altra una povertà crescente per carenza di mezzi e di tecnologie (“Cresce la ricchezza mondiale in termini assoluti, ma aumentano le disparità (n 22)”). Sul versante sociale: da una parte la difesa a tutti i costi del benessere economico da parte di chi l’ha acquisito, dall’altra la “riduzione delle reti di sicurezza sociale” (n. 25); come dire che chi è ricco diventa sempre più ricco e garantito, chi invece è povero diventa sempre più povero e meno garantito. E questo vale sia per le persone, come per le realtà produttive, come per i gruppi sociali e gli stati. E’ sotto gli occhi di tutti che cosa questo criterio e questa prassi producono: emarginazione, criminalità, violenza, degrado umano e morale, rapine di materie prime, fino a ribellioni sociali, rivoluzioni e in fine guerra. Tutto questo, ovviamente, giustificato secondo l’ideologia tecnocratica come “male necessario” o come “danno intelligente”.
Sul versante culturale: da una parte la compresenza e l’interazione di culture diverse che si arricchiscono (o possono arricchirsi) reciprocamente, dall’altra un eclettismo culturale. “Eclettismo e appiattimento culturale convergono nella separazione della cultura dalla natura umana. Così le culture non sanno più trovare la loro misura in una natura che le trascende, finendo per ridurre i ‘uomo a solo dato culturale. Quando questo avviene, 1 ‘umanità corre nuovi pericoli di asservimento e di manipolazione (n 26)’). Anche sul versante dell’etica le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Un’etica, figlia dell’ideologia tecnologica che favorisce un supersviluppo e giustifica il sottosviluppo, è un’etica ad usum delphini. Il Papa parla addirittura di abuso dell’aggettivo “etico”, perché ciascun gruppo, addirittura ciascuna persona si può costruire un’etica e vantarne la correttezza o addirittura la verità.

E’ una lettura articolata, come articolato e complesso è il momento di crisi che il mondo intero sta vivendo, e come è complessa e non omogenea la situazione del mondo di oggi. In questa complessità il Papa cerca - ma non è da oggi che la chiesa compie questo tipo di lettura - il filo conduttore, l’elemento che lega i fenomeni e li spiega, la matrice profonda. Riprendendo Giovanni Paolo Il, Papa Benedetto parla con finezza terminologica, di una insufficiente antropologia, cioè di un’immagine o concezione dell’uomo che dice sì un aspetto di verità, ma che manca della capacità di vedere e di accogliere tutta intera la verità dell’uomo. Risponde a verità che l’uomo vive per la dimensione economica e produttiva della vita e delle relazioni, ma non risponde a verità che questa dimensione sia la prima o peggio l’unica dimensione del vivere e dell’operare umano. Lo sviluppo dell’uomo e del mondo non è riducibile all’accrescimento di produzione di beni economici. L’uomo, la società, il mondo, la vita sono di più della quantità di beni prodotti e accumulati, della ricchezza economica; non è vero che tutta la dinamica esistenziale e sociale è governata dai criteri dell’economia. In altre parole è una antropologia vera, globale, che occorre riconoscere e perseguire. Su questo terna - che cioè lo sviluppo dell’uomo e della società non è riducibile alla dimensione economico-produttiva ma consiste nell’accrescimento armonico di tutte le dimensioni umane - si leggono le pagine più belle dell’enciclica. Proprio questa antropologia globale, che non è di natura ideologica o funzionale, ma accoglie la verità dell’uomo, è il fondamento dell’etica; l’etica che, proprio per questa sua fondazione antropologica globale, non è vera perché è della chiesa e dei cristiani, ma perché risponde alla realtà ed è, per questo, l’unica in grado di indicare e di perseguire il bene dell’uomo e dell’umanità. Costituisce tout court il “bene comune”.

Il Papa conclude questa lettura della situazione della società e del mondo dicendo che “L ‘amore nella verità è una grande sfida per la Chiesa in un mondo in progressiva e pervasiva globalizzazione, (n 9), riaffermando così l’impossibilità per la Chiesa di rimanere estranea e rivendicando anzi per essa il diritto dovere di interessarsi di questi temi., perché ne va del bene dell’uomo e degli uomini.

La seconda argomentazione, conseguente alla prima, riguarda la chiesa e i cristiani di fronte alla complessità (confusione) del momento presente. Il Papa segnala, prima di tutto, una difficoltà , quasi una incapacità dei cristiani a leggere, ancor più di capire,e peggio ancora, di operare correttamente in essa, ma nella direzione giusta. Al di là delle parole del Papa è quando constatiamo anche noi nelle nostre chiese locali, nella parrocchie, nei gruppi di formazione: la sofferenza dell’ impotenza, dell’ afasia, della sfiducia a tutti i livelli; forse i cristiani e le comunità che vivono in Italia sono - siamo - particolarmente provati da questa sensazione di imbarazzo, se non addirittura di paura. Il Papa sembra non condividere la scelta del silenzio e l’atteggiamento della paura. Anche il tempo presente è kairòs, cioè dono di grazia. Gli eventi per noi difficili da leggere sono veri e propri “segni dei tempi” da cogliere con fiducia operativa. Non serve, però, per far questo, un ottimismo volontaristico o superficiale; serve l’ottica della fede. Si inserisce qui un elemento di novità rispetto ai precedenti documenti del Magistero: l’attenzione alla dimensione spirituale dell’essere umano e della società; dimensione che è della persona umana (dato antropologico) e di cui la Chiesa è naturalmente custode e promotrice. L’uomo vive anche della dimensione spirituale, la quale si pone accanto a tutte le altre dimensioni, addirittura le compenetra e le trascende. Giovanni Paolo Il diceva che è questa dimensione la vera garanzia della qualifica “umana” di ogni altra dimensione e di ogni realtà umana e sociale; ed è anche la vera garanzia per il riconoscimento dei diritti e dei doveri dell’uomo. L’evidenziazione di questa dimensione costitutiva dell’essere umano, cioè la dimensione spirituale, non è una rivendicazione di una religione particolare (nel nostro caso il cristianesimo), bensì una constatazione antropologica: la prova viene dalla storia.

Per questo la radice profonda della povertà non è da cercare solo e in prima istanza nell’elemento economico-produttivo, come dice e vuole la visione ideologica oggi dominante, bensì nella negazione, nel rifiuto, nel non riconoscimento di un elemento costitutivo e tipico dell’essere umano, che è la sua dimensione spirituale. Questa dimensione entra in tutte le pieghe del vivere umano; compresi i dati economici (cf l’esperienza della gratuità, del dono anche in ambito economico), come riferimento a fattori non economicamente quantificabili..
“Le povertà spesso sono generate dal rifiuto dell ‘amore di Dio, da un ‘originaria tragica chiusura in sé medesimo dell ‘uomo, che pensa di bastare a se stesso, oppure di essere solo un fatto insignificante e passeggero, uno “straniero” in un universo costruitosi per caso. L ‘uomo è alienato quando è solo o si stacca dalla realtà, quando rinuncia a pensare e a credere in un Fondamento. L ‘umanità intera è alienata quando si affida a progetti solo umani, a ideologie e a utopie false. Oggi 1 ‘umanità appare molto più interattiva di ieri: questa maggiore vicinanza si deve trasformare in vera comunione. Lo sviluppo dei popoli dz~ende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia, che collabora in vera comunione ed è costituita da soggetti che non vivono semplicemente i ‘uno accanto all ‘altro.” (n. 53)

A questo punto possiamo enunciare, quasi un teorema, la lettura del momento presente fratta dal Papa. Lettura dalla quale può nascere quella “agenda della speranza”, di cui parliamo. Possiamo enunciarla in 5 punti.:

- la globalizzazione è un dato reale, a tutti i livelli, in particolare a livello economico-produttivo (attraverso la finanza);
- la crisi che l’umanità sta vivendo non può non essere globale; con l’economia, la finanza tutti gli aspetti della vita e del vivere sociale vengono messi in discussione; la crisi è sì di natura economico-finanziaria-commerciale, ma ancor di più è di natura culturale; addirittura etica..
- il mondo ha bisogno di una nuova etica, non figlia di ideologie e\o di poteri, ma espressione della verità dell’uomo; solo così sarà un’etica che vuole e che cerca il bene comune;
- il compito della chiesa e dei cristiani è di cogliere questo segno dei tempi che Dio offre, di “entrare” nella complessità attuale con ciò che è “proprium” della Chiesa: l’elaborazione di un’etica adeguata, pensata “insieme”, in un confronto continuo e in dialogo con tutte le “ragioni” dell’uomo;
- l’etica, cioè la ricerca del bene per tutto l’uomo e per tutti gli uomini, è ‘espressione della carità, cioè della volontà di bene; come tale, per i cristiani, scaturisce direttamente dalla Parola di Dio, dalla fede, della celebrazione liturgica, dal dono dello Spirito. Come dire che per la chiesa e per i cristiani non si tratta di un optional, bensì di un’esigenza di fedeltà a Dio e all’uomo, secondo il vangelo, e secondo tutta la Tradizione della chiesa.

2. I cristiani e le chiese di fronte alla crisi.
Quando detto come lettura della situazione attuale, anche con l’apporto della Caritas in Veritate, offre dunque ai cristiani e alle comunità due indicazioni complementari:
Una indicazione di contenuto, che è la elaborazione un’etica all’altezza dei tempi, da “offrire” o da “proporre” a tutti gli uomini e a tutta la società. Una indicazione poi di metodo che può essere sintetizzato con la parola “insieme”. Con un avvertimento da dire subito: il metodo non è facoltativo: è necessario per il contenuto. Il metodo è già contenuto dell’ etica.
Prima però di entrare in questo punto, mi piace ricordare che le nostre Chiesa del nord est non partono da zero, su queste piste. Mi richiamo al primo Convegno ecclesiale di Aquileia (nel 1990), dove si parlava di “nuova evangelizzazione” , dove molte delle cose che oggi stiamo dicendo con sofferenza erano state già allora abbozzate (forse non con la chiarezza di oggi, ma con profonda capacità di ascolto e di progettazione) non solo nei contenuti, ma anche nel metodo (quell’insieme al quale accennavo). Forse, se quell’esperienza si fosse resa più operativa nelle nostre chiese, non saremmo stati colti così di sorpresa da fattori sociali che già allora si intravedevano.
Procedo per accenni, per punti, in maniera forse troppo scolastica, anche perché sono consapevole di non dire cose nuove per nessuno dei presenti.

Prima di tutto; è la fede stessa dei cristiani e della chiesa che fa nascere la passione per il bene dell’uomo e della società intera. La Parola di Dio annunciata, letta, pregata pone il credente nell’ottica stessa di Dio, il Padre che vuole (e la sua volontà è efficace!) la salvezza per tutti gli uomini, che sono suoi figli. E la salvezza, lo sappiamo, non è una faccenda spiritualistica e neppure futuristica: è il bene totale dell’uomo in questa e nell’altra vita. La celebrazione dell’Eucaristia e di tutti i sacramenti nutre e sostiene la volontà dei credenti nel cercare il bene del singoli, come anche quello della famiglia, della società, del mondo, del cosmo. E’ stato detto: “Non è possibile per un cristiano dire il Padre nostro e poi non entrare nella vita con volontà di bene” (mons. Giovanni Nervo). Come dire che la attenzione alla società nasce dalla fede annunciata, dall’Eucaristia celebrata, dalla carità condivisa. “Finchè i cristiani si raduneranno alla domenica per celebrare i Santi Misteri non verrà meno la loro passione per il bene dell’uomo, per il bene comune”. E’ sempre stato così nella storia della chiesa. Se questo non avviene, la fede diventa un’idea astratta, la Messa un rito estetico, la carità una filantropia evanescente; in altre parole il cristianesimo appare inutile.
La Chiesa e i cristiani che “entrano” nelle realtà del mondo non commettono invasione di campo; non escono dalle loro competenze (la Chiesa resti nelle sacrestie, si occupi delle cose spirituali). Al contrario: i cristiani e le chiese devono, per fedeltà alla loro fede e alla Parola, entrare nel mondo e nelle vicende della storia. Il problema, caso mai, sarà di entrarvi correttamente.

La correttezza nell’approccio delle realtà umane, nasce per il cristiano e per le chiese dalla consapevolezza chiara della propria identità e della propria missione. La chiesa, cioè una comunità di credenti, non è un soggetto politico; non è un gruppo sindacale, né un circolo culturale. La sua identità nasce dalla fede condivisa; la sua missione è l’annuncio della salvezza che diventa prassi di carità, cioè di volontà di bene per l’uomo e per tutti gli uomini. La carità, intesa come volontà di bene, è il criterio unico che ispira e valuta e muove le scelte e le opere dei cristiani e della chiesa. In altre parole è in criterio ispiratore dell’etica cristianamente ispirata. I cristiani e la chiesa, dunque, entrano (o possono entrare) in tutte le realtà della vita e della società a titolo della competenza etica, cioè della possibilità e delle necessità di entrare nelle scelte chi ogni persona, gruppo, stato compiono o possono compiere perché siano mosse dalla volontà di bene e tendano alla realizzazione del bene, secondo le possibilità, cioè delle responsabilità di ciascuno. Questà è - diceva Giovanni Paolo Il - “la parola che compete alla Chiesa” , anche in re sociali. Si tratta di una parola che non si contrappone alle altre “parole” (quelle, ad es. della scienza, della politica, dell’economia, ecc.) ma piuttosto una parola che vuole interloquire con tutte le altre competenze, perché il bene dell’uomo e della società interpella e coinvolge tutte le competenze. Benedetto XVI aggiunge alla parola “etica”, la parola “spiritualità”, cioè il richiamo alla dimensione tipica dell’uomo e unica tra gli esseri viventi: la dimensione dello spirito, che aggiunge all’obiettivo del bene , anche in ambito economico, l’aspetto della trascendenza.
Se il bene voluto e raggiunto non è anche trascendente, non sviluppa anche la dimensione spirituale dell’uomo, ma anzi la negasse o la mortificasse, non sarebbe bene per davvero.

La parola che compete alla chiesa e ai cristiani è “unica”, nel senso che non compete a nessun altro soggetto e che alla chiesa non competono parole di altro tipo. E’ per questa unicità che la chiesa e i cristiani non possono tacere di fronte ad eventi sociali che toccano la vita delle persone e della società. Se manca la parola etica e spirituale della chiesa e dei cristiani, si corre il rischio, storicamente dimostrato, di non individuare le piste per il bene reale, per il bene comune. Si rischia di far passare per bene reale, quanto invece ha solo uno o più aspetti di bene; forse delle parvenze di bene comune; e questo quando si tratta di scelte personali e\o sociali, di strutture, dileggi, di scelte che toccano la vita di tutti.

A questo punto nasce una difficoltà che tutti conosciamo e sperimentiamo, non senza sofferenza. Tante volte la stessa realtà, la stessa scelta, la stessa legge appaiono giuste e vere da parte di qualcuno, per un aspetto, e sbagliate per qualche altro o per altri aspetti. Ci si scontra cioè con la ambivalenza, con l’ambiguità, con il limite di ogni scelta e realtà umana. Non c’è chi non si renda conto della drammaticità concreta di questa constatazione. E’ il grande tema della Verità come fondamento solido dell’etica. In assenza del rapporto con la Verità ogni etica appare arbitraria e, per questo, non accettabile da tutti; meno ancora imponibile a tutti: il pericolo è sempre quello dell’intransigenza, del totalitarismo.
Di fronte a questa constatazione molte volte si finisce per scegliere strade di compromesso, di riferimento a verità parziali; “per quieto vivere” si dice. Anche il vivere sociale sembra debba trovare un punto di possibile convivenza a livelli sempre più bassi o ridotti di verità. C’è addirittura chi teorizza che non ci sia alternativa alla strada del compromesso. Questo rapporto dell’etica con il fondamento della Verità ha interessato da sempre i cultore dell’etica; ma al di là delle scienze teoretiche tocca da vicino il vivere sociale, la possibilità o la negazione della convivenza tra cittadini della stessa città.

La Caritas in Veritate non entra direttamente in questa questione dottrinale; ma non per questo ignora o scansa la questione. Indica invece una strada, obbedendo alla finalità pastorale del documento. E’ la strada di una prassi possibile e corretta: quella che possiamo chiamare della gestione delle diversità, delle contraddizioni e delle contrapposizioni. Sono “normali” nella storia; sarebbe utopia sognare un mondo diverso, ideale. Il problema primo non è il raggiungimento di una uniformità di pensiero, di valutazione e di comportamento e neppure la elaborazione di un sistema di idee, di principi tali che possano essere riconosciuti veri e accettati da tutti. Il problema - forse più modesto, più piccolo, ma forse più reale - è quello di imparare a rapportarsi tra diversità, anche radicali (non dimentichiamo che da questa capacità dipende la pace e da questa incapacità nasce la guerra). Il mondo è fatto di diversità, di persone diverse, di culture diverse, di fedi diverse; anche le etiche sono diverse. E’ fatto di verità diverse anche in campo etico, non solo in quello teoretico, veritativo. Ecco: oggi siamo tutti di fronte alla necessità, all’urgenza di elaborare un’etica che si ponga come obiettivo quello di elaborare regole e metodi per permettere a tutte le differenze di convivere e di non farsi reciprocamente la guerra (ci sono troppo guerre, di ogni tipo, in atto e molte altre si profilano all’orizzonte). Credo che non si tratti solo di un’ obiettivo etico, ma, per noi cristiani, anche di un obiettivo di spiritualità. Il contrario sarebbe una dichiarazione di guerra contro chi è diverso.

Il Papa sembra partire propria dalla parola “Verità”. La Verità è un tema caro a Benedetto XVI. Che cosa intende il Papa quando parla della Verità? Scrivendola con la maiuscola lascia capire che la Verità è, prima di tutti in Dio, anzi è Dio stesso. Non è scritta sui libri, non è un sistema di idee, non è neppure frutto di convenzioni, di accordi, di consensi. A noi cristiani è stato detto “Io sono la Verità”; ed è parola di Gesù. La Verità trascende tutto e tutti, nel senso che è più grande di quanto ciascuno di noi può cogliere e accogliere; è appunto trascendente. Questa qualifica non dice che essa, la Verità, sta fuori e lontana dalle realtà del mondo e della storia, bensì che essa va oltre i confini delle realtà umane e storiche. E’ dentro, ma è oltre. Anche per noi cristiani, la Verità che è Gesù Cristo, non è un insegnamento: ma è una Persona, una persona che chiede e offre la possibilità di essere accolta, ma senza pensare di possederla (“Non mi trattenere” dice il Risorto alla Maddalena). La verità, per noi, non è un pensiero, ma un’esperienza di incontro che mette sempre in crisi le nostre convinzioni, le nostre valutazioni e chiede sempre di andare oltre. Oltre il già posseduto, il già pensato, il già vissuto . . . fino all’escaton, quando finalmente potremo percepire che Cristo è tutto in tutti.

Nel frattempo, lungo le strade della vita e della storia a noi è chiesto di “colligere fragmenta”; i frammenti di verità (con la v minuscola) che sono in ogni realtà, in ogni persona, in ogni cultura e religione.
In altre parole, proprio dall’adesione alla Verità, nasce un’etica che è fondata non sull’imposizione di ciò che viene ritenuto giusto, corretto, buono, né sulla rassegnazione e sulla accettazione passiva delle diversità, tanto meno fondata sulla contrapposizione e sulla lotta tra posizioni diverse; ma, al contrario, è fondata sull’incontro, il confronto, la messa in comune delle ragioni reciproche.. Possiamo già ora affermare con certezza che, quando una scelta, una legge, una fede e qualsiasi altra realtà o struttura umana viene imposta a qualcuno; quando crea divisioni e contrapposizioni, e magari le giustifica come necessarie per un futuro; quando questa produce miseria, distruzione, povertà, fame, divisione; quando crea “amici” da una parte e “nemici” dall’altra non è certamente un’etica buona e corretta. Alla fine apparirà che essa è segno e strumento di un potere che, per imporsi, diventa violento. Di contro possiamo affermare che, quando un’etica si fonda sulla accettazione delle diversità (o meglio delle persone che sono portatrici di qualche diversità di qualsiasi tipo), sull’ascolto e sul confronto delle ragioni altrui, cioè sul dialogo e, in questo modo, individua le scelte di bene, tali che non abbiano a penalizzare nessuno, allora siamo davanti ad un’etica che, non avrà ottenuto il bene totale, non avrà attinto la Verità, ma almeno ha camminato verso di essa, con passi progressivi.
I cristiani e le comunità cristiane hanno la possibilità, perché ne possiedono gli strumenti, di diventare esperti in etica a partire dalla propria fede, che diventa carità (Caritas in Veritate) in relazione a tutti gli ambiti del vivere umano, a tutti i problemi che toccano la qualità della vita delle persone, delle famiglie, della società, del mondo e del cosmo.
In altre parole l’etica corretta ed efficace, è possibile solo mettendosi insieme tra diversi per confrontare le reciproche ragioni, ma muovendosi tutti verso l’obiettivo del bene di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. Il dialogo, l’ascolto, il confronto non sono una strategia; non sono un ritrovato moderno perché alla fine ciascuno continui a tenere le proprie ragioni; sono invece la strada perché ciascuno cresca verso un bene più grande di quello che già possedeva, o credeva di possedere, all’inizio.

Ancora più concretamente, penso alla irrinunciabile presenza degli organismi di comunione e di corresponsabilità che sono i Consigli pastorali delle nostre comunità cristiane, diocesi e parrocchie; dei gruppi associativi che coltivano la formazione dei giovani e degli adulti. Spesso sono realtà, che spesso languono nel grigiore di posizioni lontane dal mondo, dalla vita della gente, incapaci di dire una parola. L’uscita da queste situazioni di insignificanza è là, a portata di mano: basta cogliere dal Vangelo la spinta e mettersi insieme (lavorare in gruppo) ponendo in dialogo (non in contrapposizione) posizioni e convinzioni diverse che sono presenti anche nello stesso gruppo e nella stessa comunità cristiana (come anche dentro alla stessa famiglia!), e poi aprirsi in ascolto delle “povertà” e delle diversità presenti nel proprio territorio persone di età diversa, di colore, di posizione sociale diversa, di religione diversa...) perché sono tutte portatrici di una “verità” che io\noi non abbiamo ancora. L’ascolto, il confronto arricchiscono; mettono in crisi le nostre idee, le nostre posizioni scontate; le nostre abitudini.... E permettono da fare passi avanti reali, da individuare insieme, verso il bene comune.
L’esperienza dice che, i cristiani che all’interno della propria comunità sperimentano questo percorso, questo stile, questo metodo, diventano poi, all’interno delle strutture e delle istituzioni pubbliche, operatori di autentica democrazia, di vera ricerca del bene comune e non accettano mai di diventare obbedienti ai potenti (o prepotenti) di turno.

Conclusione.
L’agenda della speranza per il futuro non passa attraverso i singoli capitoli (l’economia, il lavoro, la politica) che, tra l’altro sono soltanto alcune esemplificazioni della realtà globale del mondo; ma passa, più radicalmente, attraverso il lavorio dell’elaborazione di “un’etica per l’uomo globale”, cioè per il bene comune.
Ma l’elaborazione di questa etica corretta ed efficace che può salvare il mondo, è possibile soltanto “insieme”. Non è un dettaglio di stile: è la sostanza della dinamica etica.
“Insieme” a livello, prima di tutto, della singola persona: ciascuno può e deve comporre nella sua vita le esigenze quantitative, con quelle lavorative, con le dinamiche familiari e affettive, con le esigenze della psiche e, ancor di più della sua spiritualità. Il bene comune, la salvezza dell’umanità inizia dentro alla singola persona.
“Insieme” poi a livello di comunità cristiana; occorre superare ogni separatezza, ad esempio, tra l’annuncio della Parola, la celebrazione dell’Eucaristia e la vita di carità; ma anche tra preti e laici, tra teologi e gente comune, tra pastori e fedeli; il che non significa abolire o passar sopra l’identità, il carisma, la missione di ciascuno; è solo l’imperativo evangelico di abolire identità che creano separatezza e contrapposizione, posizioni di assolutismo, di integralismo che chiudono ogni possibilità di incontro con l’altro.
“Insieme” infine a livello sociale e politico: non sono morali posizioni culturali (ideologiche) e prassi socio politiche che nascono da contrapposizioni e che creano inimicizie. Questo apre il capitolo delicato della scelta di strumenti politici (i partiti e le coalizioni) e, ancor di più, il modo di star dentro agli strumenti scelti. Il cristiano, e più ancora la comunità cristiana, non potranno mai adagiarsi acriticamente su tutte le scelte e le posizioni di partiti e di coalizioni.

I cristiani singoli e le comunità hanno le carte in regola per diventare esperti nell’arte dell’etica (perché l’etica è sempre un’arte) e per fare delle comunità e delle organizzazioni cristiane vere e proprie palestre o laboratori di etica per il bene comune. Penso ai Consigli pastorali e a tutti gli altri organismi di partecipazione pastorale; penso ai gruppi formativi (giovani e adulti, coppie e famiglie, professionisti). A che cosa si riduce la formazione quando non arriva a coniugare la fede con la vita, per il bene proprio e altrui, cioè per il bene comune? E come è possibile fare formazione se non è fatta “insieme”?

La sorpresa sarà grande, se i cristiani e le comunità, imboccheranno con fiducia questa strada: non si vedrà solo una nuova significanza della Chiesa e dei cristiani nella società e nella storia, ma si vedrà - prima ancora - una nuova vitalità nella fede e nell’azione pastorale; si vedranno nascere anche nuove insperate vocazioni non solo per il servizio alla Chiesa ma anche per il servizio alla società, al mondo.
E’ questa la speranza che muove la Caritas in Veritate di Benedetto XVI. E’ questa la speranza che muove ciascuno di noi
.

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