venerdì 16 ottobre 2009

Gli atti del Convegno della prima serata della Settimana Sociale Diocesana. La relazione del Dott. Anastasia

di Bruno Anastasia
Una crisi economica? Non solo… Uno sguardo in profondità è difficile. La crisi attuale è una sfida anche intellettuale: non a caso ha generato una vasta produzione di interpretazioni. Non è affatto facile capire - proprio fino in fondo - cosa è accaduto/sta accadendo, e meno ancora pre-vedere con certezza quali ne saranno gli esiti.
Il motivo di tali particolari difficoltà è che si tratta di una crisi “globale”, non solo perché coinvolge (ha coinvolto) l’economia di tutto il mondo, ma anche perché riguarda (e in parte dipende da) altre dimensioni: geopolitiche e sociali, non solo economiche e finanziarie. Esporla e discuterla è dunque impresa ardua, che richiede vaste competenze. Sembra di essere ad un punto di svolta della storia, non solo del ciclo economico. E però la storia è facile da capire ex post, ma mentre essa si fa, mentre si svolge… è molto più complicato.

La durissima recessione del 2009
Cerchiamo allora innanzitutto di descriverla sinteticamente questa crisi. A cosa ci si riferisce quando si parla dell’ “attuale situazione di crisi”?
Il fenomeno macroscopico è così rilevabile: per il mondo occidentale il 2009 è stato di gran lunga il peggior anno – negli ultimi 60, dopo la seconda guerra mondiale – quanto a dinamica della produzione, dei redditi e dei consumi. Si è osservata una dinamica nettamente negativa: calati i consumi, diminuiti gli scambi commerciali internazionali, crollata la produzione, calati i redditi. Questa volta non ci sono dubbi: le parole crisi, recessione sono usabili a proposito, in modo distintivo. Siamo andati indietro: in recessione, appunto.
Il pil mondiale nel 2009 è previsto scendere dell’1,1%, quello dei Paesi sviluppati del 3,4%, quello dell’Italia del 5%. E le previsioni per Veneto e Friuli sono allineate alla media italiana, con un calo in ciascuna regione attorno al 5%.
La débacle non si è limitata all’Occidente: ha coinvolto – seppur con minor intensità - anche le cosiddette economie emergenti (ormai emerse) dei grandi paesi dell’ex Terzo mondo - Cina, Brasile, India - che hanno rallentato la corsa. Ma hanno continuato ad avvicinarsi ai nostri standard di reddito… visto che noi (Occidente) siamo andati indietro.
Il calo della domanda - vale a dire la contrazione di consumi, investimenti, importazioni - ha generato un formidabile calo nella produzione che, a sua volta, ha provocato una forte riduzione dei livelli occupazionali.
Milioni di posti di lavoro sono stati cancellati, e altri sono in pericolo, in Europa e in America. Si calcola che dall’inizio della recessione - dalla metà circa del 2008 - siano svaniti ad oggi (autunno 2009) quasi 3 milioni di posti di lavoro in Europa e quasi 7 milioni negli Stati Uniti. Di conseguenza è cresciuto il tasso di disoccupazione: oggi è prossimo al 10% negli Stati Uniti (15 milioni di disoccupati, il doppio che nel 2007); è sopra il 9% nell’area dell’euro.

Il confronto con il ‘29
Mai, dopo la seconda guerra mondiale, si era registrato in Occidente un simile disastro. Ciò ha spinto gli studiosi a confrontare l’attuale crisi con quella del ’29: e le analogie nel comportamento degli indicatori nei primi 15 mesi di crisi - dinamiche della produzione industriale e degli scambi mondiali - sono impressionanti. Di diverso, rispetto ad allora, c’è stata certamente la reazione dei governi e in particolare l’orientamento della politica monetaria e creditizia, questa volta intervenuta massicciamente per evitare l’insolvenza delle megabanche le quali, con gravi (ma impunite) imprudenze manageriali, avevano accumulato rischi eccessivi. Se lasciate fallire avrebbero trascinato con sé valanghe di risparmiatori e un generale crollo della fiducia. L’intervento dello Stato ha - almeno finora - impedito un corto circuito generale dei mercati. Invece nel ’29 le politiche economiche avviate dagli Stati hanno prolungato la crisi: le strette monetarie provocarono fallimenti a catena e una crescita paurosa della disoccupazione; il protezionismo - l’illusione di salvaguardare l’economia nazionale attraverso dazi alle importazioni e svalutazioni competitive - penalizzò le industrie più competitive, orientate alle transazioni commerciali e produttive internazionali; indebolì il potere d’acquisto dei consumatori, perché dazi e svalutazioni resero molto più costose le importazioni; creò un clima di crescente instabilità internazionale, premessa al drammatico conflitto bellico.

L’origine immediata della crisi
All’origine immediata di questa recessione c’è essenzialmente la crisi finanziaria deflagrata nel contesto anglosassone, inglese e statunitense, con l’emergere delle gravissime difficoltà di alcuni mega istituti bancari (Hsbc, Northern Rock, Lehman Brothers – quest’ultima aveva accumulato un debito netto pari a 600 miliardi, 1/3 circa dell’intero ammontare del debito dello Stato italiano).
Le radici della crisi sono riconducibili in sostanza alle pratiche nella gestione del credito prevalse in particolare negli Stati Uniti, con la concessione di mutui sulla casa per importi anche elevati a chiunque volesse procedere all’acquisto/ristrutturazione delle abitazioni. E mutui, peraltro, in grado di finanziare non solo la spesa per la casa ma anche i consumi “normali” perché anche questi “garantiti” dall’atteso incremento di valore dell’abitazione, in ragione di un mercato che tirava e quindi di un prezzo atteso di vendita in progressiva ascesa (rispetto a quello d’acquisto). La crescita di valore degli immobili ha funzionato da tappeto per un floridissimo mercato finanziario di titoli rappresentativi dei crediti collegati ai mutui, mercato che si pensava immunizzato dal rischio – connesso alla diversa solvibilità dei mutuatari – in quanto tale rischio era opportunamente suddiviso e mischiato in appositi pacchetti con altre tipologie di obbligazioni, meno rischiose. In tal modo si pensava che il rischio sistemico fosse sotto controllo e potenzialmente inoffensivo.
Ma ad un certo punto la domanda di abitazioni ha iniziato a flettere, per saturazione del mercato e, in generale, per il ritorno a condizioni di mercato favorevoli alla domanda. E’ quello che capita sempre ma che sempre si tende a dimenticare: l’avevano imparato già gli olandesi nel ‘600, al tempo della crisi finanziaria conseguente all’enorme e spropositato incremento di valore dei bulbi di tulipani. Cosa avevano imparato? Che per nessun bene il prezzo può crescere indefinitamente alimentato da aspettative unidirezionali.
Quando si è materializzata la flessione della domanda, come da manuale, essa ha trascinato con sé un diffuso peggioramento delle condizioni e delle prospettive economiche di un’ampia fascia di popolazione: che ha iniziato a consumare meno e, soprattutto, a non pagare le rate dei mutui.
Lo scoppio della bolla immobiliare ha fatto crollare il valore di borsa dei titoli bancari; a catena con questi è crollato tutto il mercato mobiliare.
I valori di borsa si sono ridotti al 30% di quelli pre-crisi. Negli attivi delle banche si sono generati buchi enormi, dovuti all’effetto congiunto dell’aumento delle “sofferenze” (crediti inesigibili) e del crollo di valore dei loro investimenti finanziari.
Si è perciò bloccato il credito, si sono rarefatti i mezzi di pagamento. E si è rapidamente coinvolta l’economia reale, vale a dire le fabbriche, gli uffici, il mondo della produzione. Fino a che i governi non si sono fatti carico in vario modo della situazione e non hanno fornito, a tassi ormai prossimi allo zero, liquidità in abbondanza per consentire alle banche di “ripulire” i loro bilanci. Così debiti in origine privati sono diventati pubblici. Per finanziarsi gli Stati hanno aumentato l’emissione di titoli di debito pubblico, che sono stati acquistati dalle banche, le quali in tal modo hanno migliorato la composizione dei loro attivi, riducendo il peso dei titoli rischiosi, vale a dire di quelli coinvolti nello scoppio della bolla immobiliare.

Altri fattori di crisi.
Lo squilibrio nei redditi; i cambiamenti geopolitici; l’economia immateriale. Ma non si è trattato solo di questo, vale a dire solo di una grossa crisi finanziaria. Almeno altri tre aspetti vanno ricordati, per coglierne il carattere non solo congiunturale.
Primo. La crescita dei consumi statunitensi grazie al credito facile è stata una sorta di scorciatoia rispetto alla strada “normale”, fisiologica, che fa dipendere la dinamica dei consumi dal reddito e dai salari. Grazie al boom dei valori delle case, i consumi americani sono aumentati senza che al contempo ci fosse alcuna crescita di rilievo dei salari medi. Si è trattato di una scorciatoia per tener alta la domanda (“drogata”, appunto), a fronte di una situazione sociale caratterizzata da una continua e forte polarizzazione dei redditi e dei salari, con la crescita degli addensamenti alle estreme: bassi redditi per immigrati e lavoratori poco qualificati; alti redditi per i lavoratori molto qualificati.
Un secondo fattore da menzionare, emblematico delle novità emergenti e denso di conseguenze, è collegato agli inediti squilibri globali. Non il tradizionale dislivello tra Nord (ricco) e Sud (povero), ma tra risparmiatori/esportatori (Cina in primis, Germania, Giappone, Russia, Arabia Saudita) e consumatori/debitori, paesi che - come si suol dire - “vivono al di sopra delle proprie possibilità”. Ricordiamo che il 70% del risparmio dei paesi con surplus della bilancia commerciale è “assorbito” dal deficit estero degli Stati Uniti. Il settore finanziario è riuscito per qualche anno a compiere il miracolo di rendere compatibile la convenienza degli uni a risparmiare (per finanziare i propri clienti) e degli altri a consumare. Ma il crack ha certificato l’insostenibilità già a medio termine di tale situazione e la necessità, ora, di un forte aggiustamento.
Come avverrà questo aggiustamento? Lo scenario “migliore” è quello di un’uscita graduale: la Cina che accelera la crescita interna (+consumi, +welfare) riducendo l’export e l’accumulo di dollari, divenendo anzi motore di domanda mondiale; gli Stati Uniti che riducendo i consumi e quindi le importazioni riducono il loro deficit estero e ritrovano risparmi, investimenti e produzione. Fa parte di questo scenario migliore anche attendersi un aggiustamento graduale dei cambi, con dollaro in calo e euro e yuan in crescita.
Siamo nel campo dell’auspicabile, non certo della previsione sicura. Anche altri scenari si possono prospettare: che la crisi venga giudicata transitoria e che si tenti di continuare come prima, almeno fino alla prossima bolla speculativa; oppure che, come il Giappone nello scorso decennio, ci si avviti in una spirale deflazionistica in cui le attese di prezzi calanti frenano ogni iniziativa; o ancora che, al contrario, una fiammata inflazionistica - tipo quella che negli anni ’70 ha ridotto il valore delle scorte di dollari accumulate dall’Europa negli anni ’50 e ’60 - faccia ora altrettanto a svantaggio della Cina (le riserve cinesi in dollari ammontano ad oltre 2.000 miliardi di dollari, circa il 15% del pil degli Stati Uniti).
C’è infine un terzo aspetto da ricordare. Che contribuisce a spiegare perché il mondo dei valori economici sia sempre più instabile. Questo terzo aspetto riguarda il valore della conoscenza, dell’informazione, della comunicazione, i cosiddetti “asset intangibili”, il cui costo di riproduzione tende a zero. Quanto più il paniere della nostra spesa è composto da servizi immateriali (informazioni, conoscenze, comunicazioni) tanto più è esposto a dinamiche di valori altalenanti conseguenti alla difficoltà intrinseca di “proteggere” la stabilità del prezzo di prodotti facilmente replicabili e diffondibili… fino a costo zero (guardiamo a tutto ciò che succede con la musica, con il software etc.). La conoscenza costa molto produrla ma, una volta prodotta, è difficile detenerla (se non incorporata in macchine) ed è facile che circoli a costi e ricavi pari a 0. Questo non è un aspetto congiunturale, non è legato alle vicende della finanza, è piuttosto correlato all’evoluzione tecnologica e sociale – al complessivo passaggio dal fordismo al post fordismo - ma è il fattore moltiplicativo, per alcuni il vero fattore rilevante, di un contesto dove l’incertezza e il rischio sono sovrani.

Concludendo la diagnosi: una crisi come tutte le altre?
Un punto di vista minimalista dice che questa è una crisi come tutte le altre, solo un po’ più intensa quantitativamente. Che è fisiologico per il capitalismo andar su e giù. E che tutto si aggiusterà, con un po’ di pazienza e tanto ottimismo.
Un opposto punto di vista radicale dice che niente sarà come prima, che dovranno cambiare non solo le politiche e le regole della finanza ma anche i comportamenti di tutti: questo secondo punto di vista qualche volta suscita l’impressione che si stia scambiando la crisi con la rivincita dell’etica.
Tendo a pensare che questa crisi avrà effetti importanti, ma non aspettiamoci troppi incentivi alla conversione negli stili di vita. Non bastano i vincoli se non si vogliono (o non si è in grado di) aprire gli occhi.

Qualche numero sull’Italia e sul Nord Est
E l’Italia? E il Nord Est? Siamo troppo interconnessi, legati al resto del mondo per non essere stati intaccati profondamente. La crisi partita da Wall Street è arrivata in pieno e velocemente anche all’economia delle nostre piccole imprese, dei nostri distretti industriali, attraverso tre cinghie di trasmissione.
La prima è stata la riduzione della domanda globale e quindi degli sbocchi per le nostre esportazioni. Veneto e Friuli insieme hanno esportato per 24 miliardi nei primi 6 mesi del 2009 contro i 30 miliardi realizzati nei primi sei mesi del 2008: - 20%.
La seconda cinghia operativa è arrivata attraverso le difficoltà di accesso al credito e il mutamento delle aspettative degli imprenditori: ciò ha comportato un forte calo negli investimenti e quindi nella domanda di beni intermedi.
Infine anche le imprese che producono per il mercato finale hanno dovuto fare i conti con la caduta dei consumi.
Meno export, meno investimenti, meno consumi, vuol dire alla fine meno occupazione. Rispetto ai livelli complessivi di occupazione pre-crisi si può stimare una caduta in Veneto e Friuli di almeno 70-80.000 unità, ma solo a fine anno sarà possibile avere un bilancio compiuto. Di certo sono stati interessati, soprattutto nella prima fase, in particolar modo i lavoratori del settore secondario (manifattura e costruzioni): quindi maschi e spesso stranieri. Sono aumentati i licenziamenti: nei primi 9 mesi del 2009 sono oltre 30.000 i lavoratori interessati in Veneto e Friuli da un licenziamento individuale o collettivo che sono stati inseriti nelle apposite liste di mobilità, più del doppio rispetto alle cifre dell’anno precedente. Sono aumentate le sospensioni: nessuno sa di preciso quanti lavoratori in Veneto e Friuli siano stati messi, per qualche periodo, in cassa integrazione: si può azzardare una stima, per il 2009, di un numero non distante dalle 100.000 unità. Sono diminuite le assunzioni: si è ridotto di molto il ricorso ai contratti a tempo determinato; si è rinunciato a sostituire i lavoratori che si sono dimessi o sono andati in pensione. Sono diminuite le trasformazioni da contratti di apprendistato o a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato. La riduzione delle assunzioni e delle trasformazioni ha reso difficile l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro.
E’ ovvio che, come conseguenza di tutto quanto detto, sono cresciuti i disoccupati: da 103.000 nel secondo trim. 2008 a 137.000 nel secondo trim. 2008, il 30% in più. In Veneto nei primi 9 mesi sono state presentate quasi 100.000 domande per indennità di disoccupazione da parte di persone che sono state licenziate o che hanno concluso un lavoro dipendente a termine. Ma non tutti i licenziati, non tutti i lavoratori a termine hanno i necessari requisiti - assicurativi e contributivi - per accedere all’indennità di disoccupazione.
Le previsioni che circolano parlano di un’eventuale ripresa comunque senza ripresa dell’occupazione. Ci si aspetta per il 2010 una situazione molto probabilmente ancor più difficile sul lato del mercato del lavoro. Anche perché il forte ricorso alle sospensioni, alla cassa integrazione, ha certamente limitato i licenziamenti, e quindi la disoccupazione, ma vi è un forte punto interrogativo su quanto potrà protrarsi questa situazione.
Un’aspettativa positiva è alimentata dalla constatazione che i Paesi - come Italia, Germania e Giappone - dove la caduta dell’attività economica è stata maggiormente collegata a quella della domanda mondiale possano beneficiare dei segnali positivi che arrivano dalle economie emergenti ed essere dunque avvantaggiati nella ripresa dell’attività produttiva rispetto ai Paesi - come Stati Uniti, Gran Bretagna e Spagna - la cui situazione di crisi è collegata soprattutto alle vicende interne del settore finanziario e di quello delle costruzioni.

Le specificità dell’Italia
Ci sono alcune peculiarità importanti che differenziano l’Italia rispetto ad altri Paesi.
Da un lato alcuni problemi strutturali hanno origine da ben prima della crisi: non è la crisi a crearceli anche se, certo, non aiuta a risolverli. In primis il riferimento è alla questione del debito pubblico con tutto quello che vuol dire: alti livelli di evasione, debolezza dello Stato, carenza di virtù civiche.
Altri problemi risultano invece in Italia attenuati: le famiglie italiane sono, in media, incomparabilmente meno indebitate di quelle anglosassoni e quindi la crisi dei redditi collegata alla perdita dei posti di lavoro può essere meglio assorbita da un tessuto familiare che relativamente funziona ancora, anche se meno di un tempo, come il primo ammortizzatore sociale.

Verso la conclusione
Viviamo una fase difficile ma quanto meno interessante. E questa crisi può essere utile per recuperare tutti gli interrogativi su una storia che si fa, che non è già data, che non è un processo lineare di crescita continua degli standard di vita.
Quello che dobbiamo fare è allo stesso tempo nuovo, sotto il profilo politico-sociale: pensare un mondo in cui l’Occidente non è l’unico centro, e vecchio, sotto il profilo etico: essere buoni, rispettare i dieci comandamenti.

Le sfide per i decisori pubblici
Molte delle decisioni cruciali “chiamate” dalla crisi attengono alla sfera pubblica: quale rapporto Stato/mercato, quale regolamentazione del credito e della finanza, quale politica monetaria, come pilotare gli squilibri globali, come intervenire sul fronte della disoccupazione. E’ chiamata in causa dunque un’accentuata responsabilità di chi agisce direttamente nel campo politico e nei dintorni, di chi in qualsiasi modo contribuisce a formare le opinioni che poi diventano decisioni.

Alcune utili consapevolezze da alimentare. Sulle aspettative e su uno sviluppo di maggior “qualità” (meno beni e più servizi?) (1)
Ma ne consegue la necessità di una maggior consapevolezza anche sul piano dei comportamenti personali, direi della psicologia sociale che tutti contribuiamo a formare.
Una prima consapevolezza da formare come uomini e donne (occidentali): è forse opportuno che non alimentiamo e non culliamo aspettative di ulteriore facile sviluppo quantitativo. Alcune stime ci dicono che ci vorranno anni per ritornare al livello di reddito/consumi del 2007. Siamo arrivati ad un punto tale che dobbiamo dedicarci alla qualità, intesa anche come conservazione/miglioramento di quanto abbiamo (istruzione, Welfare) - e non è facile -. E’ una sfida in particolare per le nuove generazioni: che erediteranno molto, un gran patrimonio, ma molto anche da ristrutturare per mantenerlo adeguatamente funzionante. Del resto molti cambiamenti stanno interessando la struttura interna dei consumi e della produzione, cambiamenti dettati in particolare da esigenze di lungo periodo, connesse ai mutamenti demografici, ai problemi di sostenibilità ambientale, alla crescita dell’istruzione. In questo orizzonte, la crisi non è interpretabile come una crisi da saturazione dei bisogni. E lo sbocco utile non è quello della decrescita: il mondo è pieno di bisogni, anche primari, insoddisfatti; è pieno di domande nuove e originali. Anche l’Occidente e le nostre società sono piene di richieste di miglioramento nella qualità dell’ambiente, delle infrastrutture e dei servizi (sanità, welfare, cultura). Non c’è una crisi generale “da domanda”. Non ci manca, non ci mancherà il cosa fare, anche se dobbiamo riconoscere che abbiamo già molto. Si tratta, piuttosto, di dare e cercare tempo e strumenti per rispondere alle nuove esigenze economiche, tecnologiche e sociali. In questa operazione di aggiustamento strutturale la politica può fare molto, ma non tutto. Alla fine, l’innovazione può dare risultati utili e affermarsi come fenomeno sociale solo attraverso l’investimento imprenditoriale. E affinché questo investimento possa esprimersi occorrono infrastrutture moderne, mercati ben regolati e un più equo sistema di welfare.

Sul valore del lavoro (2)
Una seconda consapevolezza che possiamo coltivare è relativa ad un utile pregiudizio sul rapporto tra reddito/ricchezza (a favore del reddito). La crisi finanziaria ha distrutto molta ricchezza (mobiliare); senz’altro tale contrazione è stata più consistente della riduzione dei redditi correnti da lavoro. Alla fine può determinarsi un qualche ri-equilibrio (nel senso almeno di un minor squilibrio) nei rapporti tra ricchezza/rendite da un lato e redditi/salari/stipendi dall’altro. Questa può essere la faccia positiva della crisi, l’autocorrezione di un sistema in cui, come tutte le ricerche internazionali ci mostrano, la disuguaglianza sociale tende continuamente a crescere e il valore del lavoro a scendere (rispetto a quello delle rendite).

Sui doveri civici di solidarietà e sulla sussidiarietà (3)
Una terza consapevolezza è relativa ai doveri di solidarietà. Innanzi tutto quella “grigia” che si esprime attraverso la redistribuzione operata dallo Stato e attraverso gli istituti del Welfare (contributi obbligatori, assicurazioni obbligatorie etc.). E’ opportuno ricordarci che nessuna solidarietà, a livello locale, di piccola comunità o di reti personali avrà mai le dimensioni e la forza della redistribuzione operata dallo Stato attraverso le tasse e i trasferimenti sociali: detto in altre parole, è plausibile pensare che nessuno darebbe in solidarietà l’equivalente di ciò che oggi non possiamo non fare, dato il ruolo dello Stato. Per quanto sia o appaia poco gratificante, dobbiamo essere consapevoli che la prima solidarietà è l’adempimento dei doveri civici che discendono dalla cittadinanza. In troppi si sentono curiosamente in credito rispetto alla collettività - sulla base di una addomesticata contabilità personale - come se pensioni, scuole ed ospedali (che costeranno sempre di più) venissero dal cielo. Accanto alla solidarietà “grigia” vanno sviluppate, è chiaro, tutte le forme della solidarietà che possono esprimersi alle scale territoriali più diverse: la fase di crisi implica che la solidarietà non è mai troppa.

Nessun commento:

Posta un commento