lunedì 26 ottobre 2009

Introduzione alla VII Settimana Sociale Diocesana - 12/14/16 Ottobre 2009

di Stefano Franzin
Sono passati 55 anni dalla morte di Alcide De Gasperi, per noi un testimone coerente e coraggioso dell’impegno cristiano in politica; un impegno iscritto in quel percorso sociale e culturale orientato dal magistero sociale della Chiesa che ha costituito un contributo fondamentale alla costruzione ed al consolidamento delle istituzioni democratiche ed allo sviluppo del nostro Paese, l’Italia.

Lo ricordiamo convinti che c’è ancora un legame vivo, che non ci fa scadere nella celebrazione nostalgica di una stagione in cui, ancora, era presente un cattolicesimo sociale e politico fecondo; è un filo che oggi sembra sottilissimo, quasi dissolto, si tratta dell’impegno concreto, appassionato, umile e responsabile per l’uomo e per la comunità.

“Il dovere di consolidare nella coscienza e nel costume delle popolazioni libere, oneste e consapevoli scelte democratiche”: possiamo fare risuonare nelle nostre coscienze queste parole di De Gasperi, cogliendo la vocazione a cui molti sono stati chiamati nel passato e pensiamo possano esserlo ancora oggi. Una chiamata alla responsabilità e alla lucida consapevolezza che servire una popolazione significa anche aiutarla a superare le proprie tendenze egoistiche e le ingiuste disuguaglianze, facendo prevalere le ragioni della solidarietà.

Un’agenda di speranza per il futuro, economia, politica, lavoro e presenza dei cristiani, è un titolo impegnativo per un momento storico altrettanto impegnativo. La settimana sociale porta questa intestazione perché, inserendoci nel filone proposto a livello nazionale, vorremmo riflettere su ciò che non ha funzionato e non funziona in ambiti fondamentali della nostra società, e confrontarci su ciò che possiamo fare per far ripartire lo sviluppo, non solo dell’economia, ma della società intera. Tutto questo secondo il metodo del “vedere giudicare agire” e condividendo le priorità, come elementi in grado di comporre un’agenda.

Il lavoro di preparazione di questa Settimana Sociale è stato di conseguenza difficile, non tanto per motivi organizzativi, ma per la complessità dei contenuti possibili e per il momento che stiamo vivendo. Sono diverse le questioni che suscitano preoccupazione, sia in riferimento a problemi spesso antichi che la crisi ha contribuito a svelare ulteriormente, sia rispetto allo stallo in cui versano le istituzioni e la politica, reso sempre più drammatico da un livello di conflittualità che ha perso di vista la ragione e la dimensione dei problemi concreti.

A tal proposito permettetemi di dire, però, che se è vero che tale momento di crisi che stiamo vivendo non è semplicemente economica, ma valoriale, etica, allora dobbiamo attrezzarci per decisi cambiamenti di rotta, dobbiamo convertirci a un nuovo modo di interpretare gli ambiti di azione sociale, istituzionale ed economica. Questo nuovo modo, per noi ispirato al magistero sociale della chiesa, si declina innanzitutto ricostituendo un piano etico e culturale il più condiviso possibile a partire dal quale tracciare piste di lavoro nuove.

Il magistero stesso respinge gli ambiti sociali e politici come ambiti privilegiati dell’impegno dei laici. Qui non dobbiamo ancora soffermarci oltre sull’opportunità o meno che la comunità religiosa, e quindi la propria Chiesa, si possa esprimere quale soggetto di cultura sociale e politica, dobbiamo domandarci piuttosto quanto oggi i laici riescano consapevolmente a prendersi, seriamente, la responsabilità di esercitare la propria vocazione sociale e politica ispirata dalla fede cristiana. Ciò non richiamandosi genericamente ai valori cristiani, o dichiarandosene interpreti privilegiati, ma esercitando tale vocazione con i fatti perché “è da questo che vi riconosceranno”.

D’altro canto, anche facendo tesoro delle sollecitazioni dei nostri pastori, i laici dovrebbero animare maggiormente nelle diverse forme e opportunità quel cattolicesimo sociale e politico che rischia di soffocare definitivamente stretto tra un mal interpretato interventismo ecclesiastico e le pressioni di un relativismo etico che cerca in ogni modo di ricacciare nel privato l’esercizio e la promozione di quei valori cristiani che sono fondamentalmente umani.

Gli atti del Convegno della prima serata della Settimana Sociale Diocesana. La relazione di Mons. Paolo Doni

di Mons. Paolo Doni
Penso che nessuno si aspetti da me una lezione di sociologia su argomenti complessi e distanti delle mie competenze, come sono i temi dell’economia, del lavoro e della politica citati nel titolo generale. Questa prima serata corrisponde al primo passaggio metodologico: punta ad uno “sguardo in profondità” sulla crisi attuale.
Già il prof. Bruno Anastasia, economista, ha offerto una lettura dall’interno della crisi attuale, da competente. Interpreto il mio compito come quello di chi può dare “uno sguardo in profondità” alla “presenza dei cristiani” (e aggiungerei, delle comunità cristiane) in questa situazione di crisi. L’ evento che state celebrando infatti, la 70 Settimana Sociale della diocesi suggerisce che lo sguardo in profondità consista nell’ essere condotto “da cristiani”.

Stavo pensando a questa vostra richiesta e stavo cercando la porta più conveniente per “entrare” nel tema, quando sono stato preso di sorpresa, come tutti voi, dall’enciclica di Benedetto XVI “Caritas in Veritate” (CiV). M’è sembrata subito, infatti, una guida preziosa e autorevole. Pur senza rubare nulla alla presentazione dell’enciclica che farà con voi mons. Miglio, mi è sembrato opportuno cogliere qualche spunto, con attenzione specifica al metodo seguito dal Papa e, assieme a voi, cerco di ragionare ad alta voce.
Divido dunque la mia riflessione ad alta voce in due punti:

- La crisi attuale letta dalla Caritas in Veritate
- I cristiani e le comunità nella crisi.

1. La crisi attuale letta dalla Caritas in Veritate.
L’enciclica, la terza di Benedetto XVI, è un documento sociale. Come tale si pone sulla scia di tutti i documenti del magistero della chiesa in materia sociale (la DSDC) a iniziare dalla Rerum Novarum. Papa Benedetto ci tiene molto a sottolineare la continuità ditale insegnamento, anche se aggiornato di volta in volta al mutare dei tempi e delle questioni sociali. In particolare la nuova enciclica si pone in continuità con due grandi documenti, di cui vuole ricordare il 400 e il 20° anniversario: la Populorum Progressio di Paolo VI (1967) e la Sollicitudo Rei Socialis di Giovanni Paolo 11(1987). Il contenuto dell’enciclica è “sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità”, come recita il titolo. Non entriamo nel merito. Ciò che mi preme evidenziare è il metodo, l’approccio che il testo del Papa percorre per parlare dello sviluppo umano integrale. Approccio che è già accennato nel titolo: lo sviluppo umano integrale (ricordiamo come i due documenti celebrati avevano inteso e reclamato l’integralità dello sviluppo, come segno e garanzia della sua eticità, cioè alla sua finalizzazione al bene dell’uomo e della società) è riportato, come a propria chiave di lettura, al tema della carità, cioè della volontà di bene per l’uomo e, ancor di più, alla verità affermando e dimostrando che questo legame è l’ottica specifica, propria dei cristiani e della chiesa.. E’ proprio questo collegamento che costituisce la novità dell’enciclica. Benedetto XVI definisce anzi tutta la DSDC come “caritas in veritate in re sociali” (n 5).

Tutto il documento ruota attorno a due principi complementari:
- la fede cristiana, con il suo irrinunciabile fondamento biblico, non può non diventare carità, cioè ricerca del bene per il singolo come per la società degli uomini;
- Il “bene” delle persone e della società, non è pensabile, e tanto meno costruibile, all’infuori della carità e della verità, cioè all’infuori di un’etica fondata sulla verità dell’uomo e delle cose; in caso contrario anche l’etica sarebbe frutto di ideologie e\o di poteri e alla fine non costruirebbe il bene dell’uomo.
Partendo e intrecciando questi due principi il Papa individua “la parola che compete alla Chiesa e ai cristiani” sul mondo di oggi. E’ il problema delicato, già affrontato da Paolo VI e da Giovanni Paolo Il della competenza della chiesa, in re sociali.

Entrando nel vivo, l’enciclica parte da due argomentazioni che si intrecciano: una di carattere socio-culturale, l’altra di carattere ecclesiale-pastorale. Possiamo ripercorrerle velocemente evidenziandole separatamente..

La prima argomentazione entra nella lettura del momento presente, segnato dalla globalizzazione (“l’esplosione dell’interdipendenza planetaria”, n.3 3). Costituisce la vera e più significativa novità del momento storico che l’umanità sta vivendo. L’interdipendenza planetaria, dice, non è semplicemente un fenomeno geografico; non dice soltanto la dimensione dell’interdipendenza economica, ma è un fenomeno culturale, tale cioè da determinare l’impostazione e l’andamento della cultura attuale. Il tratto che maggiormente connota questa cultura dell’interdipendenza planetaria è quella che egli chiama “una nuova ideologia pratica: l’ideologia tecnocratica (n 14) che oggi si presenta in versioni diverse e contrastanti. Il Papa scrive: “Dall ‘ideologia tecnocratica, particolarmente radicata oggi, Paolo VI aveva già messo in guardia consapevole del grande pericolo di affidare i ‘intero processo dello sviluppo alla sola tecnica, perché in tal modo rimarrebbe senza orientamento. La tecnica, presa in se stessa, è ambivalente, Se da un lato, oggi, vi è chi propende ad affidarle interamente detto processo di sviluppo, dall ‘altro si assiste all ‘insorgenza di ideologie che negano in toto i ‘utilità stessa dello sviluppo, ritenuto radicalmente antiumano e portatore solo di degradazione. Così, si finisce per condannare non solo il modo distorto e ingiusto con cui gli uomini talvolta orientano il progresso, ma le stesse scoperte scientifiche, che, se ben usate, costituiscono invece un ‘opportunità di crescita per tutti. L ‘idea di un mondo senza sviluppo esprime sfiducia nell ‘uomo e in Dio. E’ quindi un grave errore disprezzare le capacità umane di controllare le distorsioni dello sviluppo o addirittura ignorare che 1 ‘uomo è costituzionalmente proteso verso i ‘ “essere di più “. Assolutizzare ideologicamente il progresso tecnico oppure vagheggiare i ‘utopia di un ‘umanità tornata all ‘originario stato di natura sono due modi opposti per separare il progresso dalla sua valutazione morale e, quindi, dalla nostra responsabilità. “(n. 14). In altre parole, l’ideologia tecnocratica esalta per alcuni, lo sviluppo e la ricerca di “avere sempre di più”, mentre giustifica per altri il permanere della povertà e del sottosviluppo. Lo sviluppo e il sottosviluppo invece, dice il Papa, dipendono da scelte fatte da uomini, non da fattori imponderabili e assoluti, dal destino o dalla fortuna, da fatalità; sono scelte che implicano sempre la responsabilità umana (n. 17); sono cioè scelte morali che uomini concreti compiono.

Le conseguenze di questa cultura globale segnata dall’ideologia tecnocratica sono constatabili su tutti i fronti e in tutte le parti del mondo. Sul versante economico: da una parte un accumulo senza limiti di beni economici, dall’altra una povertà crescente per carenza di mezzi e di tecnologie (“Cresce la ricchezza mondiale in termini assoluti, ma aumentano le disparità (n 22)”). Sul versante sociale: da una parte la difesa a tutti i costi del benessere economico da parte di chi l’ha acquisito, dall’altra la “riduzione delle reti di sicurezza sociale” (n. 25); come dire che chi è ricco diventa sempre più ricco e garantito, chi invece è povero diventa sempre più povero e meno garantito. E questo vale sia per le persone, come per le realtà produttive, come per i gruppi sociali e gli stati. E’ sotto gli occhi di tutti che cosa questo criterio e questa prassi producono: emarginazione, criminalità, violenza, degrado umano e morale, rapine di materie prime, fino a ribellioni sociali, rivoluzioni e in fine guerra. Tutto questo, ovviamente, giustificato secondo l’ideologia tecnocratica come “male necessario” o come “danno intelligente”.
Sul versante culturale: da una parte la compresenza e l’interazione di culture diverse che si arricchiscono (o possono arricchirsi) reciprocamente, dall’altra un eclettismo culturale. “Eclettismo e appiattimento culturale convergono nella separazione della cultura dalla natura umana. Così le culture non sanno più trovare la loro misura in una natura che le trascende, finendo per ridurre i ‘uomo a solo dato culturale. Quando questo avviene, 1 ‘umanità corre nuovi pericoli di asservimento e di manipolazione (n 26)’). Anche sul versante dell’etica le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Un’etica, figlia dell’ideologia tecnologica che favorisce un supersviluppo e giustifica il sottosviluppo, è un’etica ad usum delphini. Il Papa parla addirittura di abuso dell’aggettivo “etico”, perché ciascun gruppo, addirittura ciascuna persona si può costruire un’etica e vantarne la correttezza o addirittura la verità.

E’ una lettura articolata, come articolato e complesso è il momento di crisi che il mondo intero sta vivendo, e come è complessa e non omogenea la situazione del mondo di oggi. In questa complessità il Papa cerca - ma non è da oggi che la chiesa compie questo tipo di lettura - il filo conduttore, l’elemento che lega i fenomeni e li spiega, la matrice profonda. Riprendendo Giovanni Paolo Il, Papa Benedetto parla con finezza terminologica, di una insufficiente antropologia, cioè di un’immagine o concezione dell’uomo che dice sì un aspetto di verità, ma che manca della capacità di vedere e di accogliere tutta intera la verità dell’uomo. Risponde a verità che l’uomo vive per la dimensione economica e produttiva della vita e delle relazioni, ma non risponde a verità che questa dimensione sia la prima o peggio l’unica dimensione del vivere e dell’operare umano. Lo sviluppo dell’uomo e del mondo non è riducibile all’accrescimento di produzione di beni economici. L’uomo, la società, il mondo, la vita sono di più della quantità di beni prodotti e accumulati, della ricchezza economica; non è vero che tutta la dinamica esistenziale e sociale è governata dai criteri dell’economia. In altre parole è una antropologia vera, globale, che occorre riconoscere e perseguire. Su questo terna - che cioè lo sviluppo dell’uomo e della società non è riducibile alla dimensione economico-produttiva ma consiste nell’accrescimento armonico di tutte le dimensioni umane - si leggono le pagine più belle dell’enciclica. Proprio questa antropologia globale, che non è di natura ideologica o funzionale, ma accoglie la verità dell’uomo, è il fondamento dell’etica; l’etica che, proprio per questa sua fondazione antropologica globale, non è vera perché è della chiesa e dei cristiani, ma perché risponde alla realtà ed è, per questo, l’unica in grado di indicare e di perseguire il bene dell’uomo e dell’umanità. Costituisce tout court il “bene comune”.

Il Papa conclude questa lettura della situazione della società e del mondo dicendo che “L ‘amore nella verità è una grande sfida per la Chiesa in un mondo in progressiva e pervasiva globalizzazione, (n 9), riaffermando così l’impossibilità per la Chiesa di rimanere estranea e rivendicando anzi per essa il diritto dovere di interessarsi di questi temi., perché ne va del bene dell’uomo e degli uomini.

La seconda argomentazione, conseguente alla prima, riguarda la chiesa e i cristiani di fronte alla complessità (confusione) del momento presente. Il Papa segnala, prima di tutto, una difficoltà , quasi una incapacità dei cristiani a leggere, ancor più di capire,e peggio ancora, di operare correttamente in essa, ma nella direzione giusta. Al di là delle parole del Papa è quando constatiamo anche noi nelle nostre chiese locali, nella parrocchie, nei gruppi di formazione: la sofferenza dell’ impotenza, dell’ afasia, della sfiducia a tutti i livelli; forse i cristiani e le comunità che vivono in Italia sono - siamo - particolarmente provati da questa sensazione di imbarazzo, se non addirittura di paura. Il Papa sembra non condividere la scelta del silenzio e l’atteggiamento della paura. Anche il tempo presente è kairòs, cioè dono di grazia. Gli eventi per noi difficili da leggere sono veri e propri “segni dei tempi” da cogliere con fiducia operativa. Non serve, però, per far questo, un ottimismo volontaristico o superficiale; serve l’ottica della fede. Si inserisce qui un elemento di novità rispetto ai precedenti documenti del Magistero: l’attenzione alla dimensione spirituale dell’essere umano e della società; dimensione che è della persona umana (dato antropologico) e di cui la Chiesa è naturalmente custode e promotrice. L’uomo vive anche della dimensione spirituale, la quale si pone accanto a tutte le altre dimensioni, addirittura le compenetra e le trascende. Giovanni Paolo Il diceva che è questa dimensione la vera garanzia della qualifica “umana” di ogni altra dimensione e di ogni realtà umana e sociale; ed è anche la vera garanzia per il riconoscimento dei diritti e dei doveri dell’uomo. L’evidenziazione di questa dimensione costitutiva dell’essere umano, cioè la dimensione spirituale, non è una rivendicazione di una religione particolare (nel nostro caso il cristianesimo), bensì una constatazione antropologica: la prova viene dalla storia.

Per questo la radice profonda della povertà non è da cercare solo e in prima istanza nell’elemento economico-produttivo, come dice e vuole la visione ideologica oggi dominante, bensì nella negazione, nel rifiuto, nel non riconoscimento di un elemento costitutivo e tipico dell’essere umano, che è la sua dimensione spirituale. Questa dimensione entra in tutte le pieghe del vivere umano; compresi i dati economici (cf l’esperienza della gratuità, del dono anche in ambito economico), come riferimento a fattori non economicamente quantificabili..
“Le povertà spesso sono generate dal rifiuto dell ‘amore di Dio, da un ‘originaria tragica chiusura in sé medesimo dell ‘uomo, che pensa di bastare a se stesso, oppure di essere solo un fatto insignificante e passeggero, uno “straniero” in un universo costruitosi per caso. L ‘uomo è alienato quando è solo o si stacca dalla realtà, quando rinuncia a pensare e a credere in un Fondamento. L ‘umanità intera è alienata quando si affida a progetti solo umani, a ideologie e a utopie false. Oggi 1 ‘umanità appare molto più interattiva di ieri: questa maggiore vicinanza si deve trasformare in vera comunione. Lo sviluppo dei popoli dz~ende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia, che collabora in vera comunione ed è costituita da soggetti che non vivono semplicemente i ‘uno accanto all ‘altro.” (n. 53)

A questo punto possiamo enunciare, quasi un teorema, la lettura del momento presente fratta dal Papa. Lettura dalla quale può nascere quella “agenda della speranza”, di cui parliamo. Possiamo enunciarla in 5 punti.:

- la globalizzazione è un dato reale, a tutti i livelli, in particolare a livello economico-produttivo (attraverso la finanza);
- la crisi che l’umanità sta vivendo non può non essere globale; con l’economia, la finanza tutti gli aspetti della vita e del vivere sociale vengono messi in discussione; la crisi è sì di natura economico-finanziaria-commerciale, ma ancor di più è di natura culturale; addirittura etica..
- il mondo ha bisogno di una nuova etica, non figlia di ideologie e\o di poteri, ma espressione della verità dell’uomo; solo così sarà un’etica che vuole e che cerca il bene comune;
- il compito della chiesa e dei cristiani è di cogliere questo segno dei tempi che Dio offre, di “entrare” nella complessità attuale con ciò che è “proprium” della Chiesa: l’elaborazione di un’etica adeguata, pensata “insieme”, in un confronto continuo e in dialogo con tutte le “ragioni” dell’uomo;
- l’etica, cioè la ricerca del bene per tutto l’uomo e per tutti gli uomini, è ‘espressione della carità, cioè della volontà di bene; come tale, per i cristiani, scaturisce direttamente dalla Parola di Dio, dalla fede, della celebrazione liturgica, dal dono dello Spirito. Come dire che per la chiesa e per i cristiani non si tratta di un optional, bensì di un’esigenza di fedeltà a Dio e all’uomo, secondo il vangelo, e secondo tutta la Tradizione della chiesa.

2. I cristiani e le chiese di fronte alla crisi.
Quando detto come lettura della situazione attuale, anche con l’apporto della Caritas in Veritate, offre dunque ai cristiani e alle comunità due indicazioni complementari:
Una indicazione di contenuto, che è la elaborazione un’etica all’altezza dei tempi, da “offrire” o da “proporre” a tutti gli uomini e a tutta la società. Una indicazione poi di metodo che può essere sintetizzato con la parola “insieme”. Con un avvertimento da dire subito: il metodo non è facoltativo: è necessario per il contenuto. Il metodo è già contenuto dell’ etica.
Prima però di entrare in questo punto, mi piace ricordare che le nostre Chiesa del nord est non partono da zero, su queste piste. Mi richiamo al primo Convegno ecclesiale di Aquileia (nel 1990), dove si parlava di “nuova evangelizzazione” , dove molte delle cose che oggi stiamo dicendo con sofferenza erano state già allora abbozzate (forse non con la chiarezza di oggi, ma con profonda capacità di ascolto e di progettazione) non solo nei contenuti, ma anche nel metodo (quell’insieme al quale accennavo). Forse, se quell’esperienza si fosse resa più operativa nelle nostre chiese, non saremmo stati colti così di sorpresa da fattori sociali che già allora si intravedevano.
Procedo per accenni, per punti, in maniera forse troppo scolastica, anche perché sono consapevole di non dire cose nuove per nessuno dei presenti.

Prima di tutto; è la fede stessa dei cristiani e della chiesa che fa nascere la passione per il bene dell’uomo e della società intera. La Parola di Dio annunciata, letta, pregata pone il credente nell’ottica stessa di Dio, il Padre che vuole (e la sua volontà è efficace!) la salvezza per tutti gli uomini, che sono suoi figli. E la salvezza, lo sappiamo, non è una faccenda spiritualistica e neppure futuristica: è il bene totale dell’uomo in questa e nell’altra vita. La celebrazione dell’Eucaristia e di tutti i sacramenti nutre e sostiene la volontà dei credenti nel cercare il bene del singoli, come anche quello della famiglia, della società, del mondo, del cosmo. E’ stato detto: “Non è possibile per un cristiano dire il Padre nostro e poi non entrare nella vita con volontà di bene” (mons. Giovanni Nervo). Come dire che la attenzione alla società nasce dalla fede annunciata, dall’Eucaristia celebrata, dalla carità condivisa. “Finchè i cristiani si raduneranno alla domenica per celebrare i Santi Misteri non verrà meno la loro passione per il bene dell’uomo, per il bene comune”. E’ sempre stato così nella storia della chiesa. Se questo non avviene, la fede diventa un’idea astratta, la Messa un rito estetico, la carità una filantropia evanescente; in altre parole il cristianesimo appare inutile.
La Chiesa e i cristiani che “entrano” nelle realtà del mondo non commettono invasione di campo; non escono dalle loro competenze (la Chiesa resti nelle sacrestie, si occupi delle cose spirituali). Al contrario: i cristiani e le chiese devono, per fedeltà alla loro fede e alla Parola, entrare nel mondo e nelle vicende della storia. Il problema, caso mai, sarà di entrarvi correttamente.

La correttezza nell’approccio delle realtà umane, nasce per il cristiano e per le chiese dalla consapevolezza chiara della propria identità e della propria missione. La chiesa, cioè una comunità di credenti, non è un soggetto politico; non è un gruppo sindacale, né un circolo culturale. La sua identità nasce dalla fede condivisa; la sua missione è l’annuncio della salvezza che diventa prassi di carità, cioè di volontà di bene per l’uomo e per tutti gli uomini. La carità, intesa come volontà di bene, è il criterio unico che ispira e valuta e muove le scelte e le opere dei cristiani e della chiesa. In altre parole è in criterio ispiratore dell’etica cristianamente ispirata. I cristiani e la chiesa, dunque, entrano (o possono entrare) in tutte le realtà della vita e della società a titolo della competenza etica, cioè della possibilità e delle necessità di entrare nelle scelte chi ogni persona, gruppo, stato compiono o possono compiere perché siano mosse dalla volontà di bene e tendano alla realizzazione del bene, secondo le possibilità, cioè delle responsabilità di ciascuno. Questà è - diceva Giovanni Paolo Il - “la parola che compete alla Chiesa” , anche in re sociali. Si tratta di una parola che non si contrappone alle altre “parole” (quelle, ad es. della scienza, della politica, dell’economia, ecc.) ma piuttosto una parola che vuole interloquire con tutte le altre competenze, perché il bene dell’uomo e della società interpella e coinvolge tutte le competenze. Benedetto XVI aggiunge alla parola “etica”, la parola “spiritualità”, cioè il richiamo alla dimensione tipica dell’uomo e unica tra gli esseri viventi: la dimensione dello spirito, che aggiunge all’obiettivo del bene , anche in ambito economico, l’aspetto della trascendenza.
Se il bene voluto e raggiunto non è anche trascendente, non sviluppa anche la dimensione spirituale dell’uomo, ma anzi la negasse o la mortificasse, non sarebbe bene per davvero.

La parola che compete alla chiesa e ai cristiani è “unica”, nel senso che non compete a nessun altro soggetto e che alla chiesa non competono parole di altro tipo. E’ per questa unicità che la chiesa e i cristiani non possono tacere di fronte ad eventi sociali che toccano la vita delle persone e della società. Se manca la parola etica e spirituale della chiesa e dei cristiani, si corre il rischio, storicamente dimostrato, di non individuare le piste per il bene reale, per il bene comune. Si rischia di far passare per bene reale, quanto invece ha solo uno o più aspetti di bene; forse delle parvenze di bene comune; e questo quando si tratta di scelte personali e\o sociali, di strutture, dileggi, di scelte che toccano la vita di tutti.

A questo punto nasce una difficoltà che tutti conosciamo e sperimentiamo, non senza sofferenza. Tante volte la stessa realtà, la stessa scelta, la stessa legge appaiono giuste e vere da parte di qualcuno, per un aspetto, e sbagliate per qualche altro o per altri aspetti. Ci si scontra cioè con la ambivalenza, con l’ambiguità, con il limite di ogni scelta e realtà umana. Non c’è chi non si renda conto della drammaticità concreta di questa constatazione. E’ il grande tema della Verità come fondamento solido dell’etica. In assenza del rapporto con la Verità ogni etica appare arbitraria e, per questo, non accettabile da tutti; meno ancora imponibile a tutti: il pericolo è sempre quello dell’intransigenza, del totalitarismo.
Di fronte a questa constatazione molte volte si finisce per scegliere strade di compromesso, di riferimento a verità parziali; “per quieto vivere” si dice. Anche il vivere sociale sembra debba trovare un punto di possibile convivenza a livelli sempre più bassi o ridotti di verità. C’è addirittura chi teorizza che non ci sia alternativa alla strada del compromesso. Questo rapporto dell’etica con il fondamento della Verità ha interessato da sempre i cultore dell’etica; ma al di là delle scienze teoretiche tocca da vicino il vivere sociale, la possibilità o la negazione della convivenza tra cittadini della stessa città.

La Caritas in Veritate non entra direttamente in questa questione dottrinale; ma non per questo ignora o scansa la questione. Indica invece una strada, obbedendo alla finalità pastorale del documento. E’ la strada di una prassi possibile e corretta: quella che possiamo chiamare della gestione delle diversità, delle contraddizioni e delle contrapposizioni. Sono “normali” nella storia; sarebbe utopia sognare un mondo diverso, ideale. Il problema primo non è il raggiungimento di una uniformità di pensiero, di valutazione e di comportamento e neppure la elaborazione di un sistema di idee, di principi tali che possano essere riconosciuti veri e accettati da tutti. Il problema - forse più modesto, più piccolo, ma forse più reale - è quello di imparare a rapportarsi tra diversità, anche radicali (non dimentichiamo che da questa capacità dipende la pace e da questa incapacità nasce la guerra). Il mondo è fatto di diversità, di persone diverse, di culture diverse, di fedi diverse; anche le etiche sono diverse. E’ fatto di verità diverse anche in campo etico, non solo in quello teoretico, veritativo. Ecco: oggi siamo tutti di fronte alla necessità, all’urgenza di elaborare un’etica che si ponga come obiettivo quello di elaborare regole e metodi per permettere a tutte le differenze di convivere e di non farsi reciprocamente la guerra (ci sono troppo guerre, di ogni tipo, in atto e molte altre si profilano all’orizzonte). Credo che non si tratti solo di un’ obiettivo etico, ma, per noi cristiani, anche di un obiettivo di spiritualità. Il contrario sarebbe una dichiarazione di guerra contro chi è diverso.

Il Papa sembra partire propria dalla parola “Verità”. La Verità è un tema caro a Benedetto XVI. Che cosa intende il Papa quando parla della Verità? Scrivendola con la maiuscola lascia capire che la Verità è, prima di tutti in Dio, anzi è Dio stesso. Non è scritta sui libri, non è un sistema di idee, non è neppure frutto di convenzioni, di accordi, di consensi. A noi cristiani è stato detto “Io sono la Verità”; ed è parola di Gesù. La Verità trascende tutto e tutti, nel senso che è più grande di quanto ciascuno di noi può cogliere e accogliere; è appunto trascendente. Questa qualifica non dice che essa, la Verità, sta fuori e lontana dalle realtà del mondo e della storia, bensì che essa va oltre i confini delle realtà umane e storiche. E’ dentro, ma è oltre. Anche per noi cristiani, la Verità che è Gesù Cristo, non è un insegnamento: ma è una Persona, una persona che chiede e offre la possibilità di essere accolta, ma senza pensare di possederla (“Non mi trattenere” dice il Risorto alla Maddalena). La verità, per noi, non è un pensiero, ma un’esperienza di incontro che mette sempre in crisi le nostre convinzioni, le nostre valutazioni e chiede sempre di andare oltre. Oltre il già posseduto, il già pensato, il già vissuto . . . fino all’escaton, quando finalmente potremo percepire che Cristo è tutto in tutti.

Nel frattempo, lungo le strade della vita e della storia a noi è chiesto di “colligere fragmenta”; i frammenti di verità (con la v minuscola) che sono in ogni realtà, in ogni persona, in ogni cultura e religione.
In altre parole, proprio dall’adesione alla Verità, nasce un’etica che è fondata non sull’imposizione di ciò che viene ritenuto giusto, corretto, buono, né sulla rassegnazione e sulla accettazione passiva delle diversità, tanto meno fondata sulla contrapposizione e sulla lotta tra posizioni diverse; ma, al contrario, è fondata sull’incontro, il confronto, la messa in comune delle ragioni reciproche.. Possiamo già ora affermare con certezza che, quando una scelta, una legge, una fede e qualsiasi altra realtà o struttura umana viene imposta a qualcuno; quando crea divisioni e contrapposizioni, e magari le giustifica come necessarie per un futuro; quando questa produce miseria, distruzione, povertà, fame, divisione; quando crea “amici” da una parte e “nemici” dall’altra non è certamente un’etica buona e corretta. Alla fine apparirà che essa è segno e strumento di un potere che, per imporsi, diventa violento. Di contro possiamo affermare che, quando un’etica si fonda sulla accettazione delle diversità (o meglio delle persone che sono portatrici di qualche diversità di qualsiasi tipo), sull’ascolto e sul confronto delle ragioni altrui, cioè sul dialogo e, in questo modo, individua le scelte di bene, tali che non abbiano a penalizzare nessuno, allora siamo davanti ad un’etica che, non avrà ottenuto il bene totale, non avrà attinto la Verità, ma almeno ha camminato verso di essa, con passi progressivi.
I cristiani e le comunità cristiane hanno la possibilità, perché ne possiedono gli strumenti, di diventare esperti in etica a partire dalla propria fede, che diventa carità (Caritas in Veritate) in relazione a tutti gli ambiti del vivere umano, a tutti i problemi che toccano la qualità della vita delle persone, delle famiglie, della società, del mondo e del cosmo.
In altre parole l’etica corretta ed efficace, è possibile solo mettendosi insieme tra diversi per confrontare le reciproche ragioni, ma muovendosi tutti verso l’obiettivo del bene di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. Il dialogo, l’ascolto, il confronto non sono una strategia; non sono un ritrovato moderno perché alla fine ciascuno continui a tenere le proprie ragioni; sono invece la strada perché ciascuno cresca verso un bene più grande di quello che già possedeva, o credeva di possedere, all’inizio.

Ancora più concretamente, penso alla irrinunciabile presenza degli organismi di comunione e di corresponsabilità che sono i Consigli pastorali delle nostre comunità cristiane, diocesi e parrocchie; dei gruppi associativi che coltivano la formazione dei giovani e degli adulti. Spesso sono realtà, che spesso languono nel grigiore di posizioni lontane dal mondo, dalla vita della gente, incapaci di dire una parola. L’uscita da queste situazioni di insignificanza è là, a portata di mano: basta cogliere dal Vangelo la spinta e mettersi insieme (lavorare in gruppo) ponendo in dialogo (non in contrapposizione) posizioni e convinzioni diverse che sono presenti anche nello stesso gruppo e nella stessa comunità cristiana (come anche dentro alla stessa famiglia!), e poi aprirsi in ascolto delle “povertà” e delle diversità presenti nel proprio territorio persone di età diversa, di colore, di posizione sociale diversa, di religione diversa...) perché sono tutte portatrici di una “verità” che io\noi non abbiamo ancora. L’ascolto, il confronto arricchiscono; mettono in crisi le nostre idee, le nostre posizioni scontate; le nostre abitudini.... E permettono da fare passi avanti reali, da individuare insieme, verso il bene comune.
L’esperienza dice che, i cristiani che all’interno della propria comunità sperimentano questo percorso, questo stile, questo metodo, diventano poi, all’interno delle strutture e delle istituzioni pubbliche, operatori di autentica democrazia, di vera ricerca del bene comune e non accettano mai di diventare obbedienti ai potenti (o prepotenti) di turno.

Conclusione.
L’agenda della speranza per il futuro non passa attraverso i singoli capitoli (l’economia, il lavoro, la politica) che, tra l’altro sono soltanto alcune esemplificazioni della realtà globale del mondo; ma passa, più radicalmente, attraverso il lavorio dell’elaborazione di “un’etica per l’uomo globale”, cioè per il bene comune.
Ma l’elaborazione di questa etica corretta ed efficace che può salvare il mondo, è possibile soltanto “insieme”. Non è un dettaglio di stile: è la sostanza della dinamica etica.
“Insieme” a livello, prima di tutto, della singola persona: ciascuno può e deve comporre nella sua vita le esigenze quantitative, con quelle lavorative, con le dinamiche familiari e affettive, con le esigenze della psiche e, ancor di più della sua spiritualità. Il bene comune, la salvezza dell’umanità inizia dentro alla singola persona.
“Insieme” poi a livello di comunità cristiana; occorre superare ogni separatezza, ad esempio, tra l’annuncio della Parola, la celebrazione dell’Eucaristia e la vita di carità; ma anche tra preti e laici, tra teologi e gente comune, tra pastori e fedeli; il che non significa abolire o passar sopra l’identità, il carisma, la missione di ciascuno; è solo l’imperativo evangelico di abolire identità che creano separatezza e contrapposizione, posizioni di assolutismo, di integralismo che chiudono ogni possibilità di incontro con l’altro.
“Insieme” infine a livello sociale e politico: non sono morali posizioni culturali (ideologiche) e prassi socio politiche che nascono da contrapposizioni e che creano inimicizie. Questo apre il capitolo delicato della scelta di strumenti politici (i partiti e le coalizioni) e, ancor di più, il modo di star dentro agli strumenti scelti. Il cristiano, e più ancora la comunità cristiana, non potranno mai adagiarsi acriticamente su tutte le scelte e le posizioni di partiti e di coalizioni.

I cristiani singoli e le comunità hanno le carte in regola per diventare esperti nell’arte dell’etica (perché l’etica è sempre un’arte) e per fare delle comunità e delle organizzazioni cristiane vere e proprie palestre o laboratori di etica per il bene comune. Penso ai Consigli pastorali e a tutti gli altri organismi di partecipazione pastorale; penso ai gruppi formativi (giovani e adulti, coppie e famiglie, professionisti). A che cosa si riduce la formazione quando non arriva a coniugare la fede con la vita, per il bene proprio e altrui, cioè per il bene comune? E come è possibile fare formazione se non è fatta “insieme”?

La sorpresa sarà grande, se i cristiani e le comunità, imboccheranno con fiducia questa strada: non si vedrà solo una nuova significanza della Chiesa e dei cristiani nella società e nella storia, ma si vedrà - prima ancora - una nuova vitalità nella fede e nell’azione pastorale; si vedranno nascere anche nuove insperate vocazioni non solo per il servizio alla Chiesa ma anche per il servizio alla società, al mondo.
E’ questa la speranza che muove la Caritas in Veritate di Benedetto XVI. E’ questa la speranza che muove ciascuno di noi
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venerdì 16 ottobre 2009

Gli atti del Convegno della prima serata della Settimana Sociale Diocesana. La relazione del Dott. Anastasia

di Bruno Anastasia
Una crisi economica? Non solo… Uno sguardo in profondità è difficile. La crisi attuale è una sfida anche intellettuale: non a caso ha generato una vasta produzione di interpretazioni. Non è affatto facile capire - proprio fino in fondo - cosa è accaduto/sta accadendo, e meno ancora pre-vedere con certezza quali ne saranno gli esiti.
Il motivo di tali particolari difficoltà è che si tratta di una crisi “globale”, non solo perché coinvolge (ha coinvolto) l’economia di tutto il mondo, ma anche perché riguarda (e in parte dipende da) altre dimensioni: geopolitiche e sociali, non solo economiche e finanziarie. Esporla e discuterla è dunque impresa ardua, che richiede vaste competenze. Sembra di essere ad un punto di svolta della storia, non solo del ciclo economico. E però la storia è facile da capire ex post, ma mentre essa si fa, mentre si svolge… è molto più complicato.

La durissima recessione del 2009
Cerchiamo allora innanzitutto di descriverla sinteticamente questa crisi. A cosa ci si riferisce quando si parla dell’ “attuale situazione di crisi”?
Il fenomeno macroscopico è così rilevabile: per il mondo occidentale il 2009 è stato di gran lunga il peggior anno – negli ultimi 60, dopo la seconda guerra mondiale – quanto a dinamica della produzione, dei redditi e dei consumi. Si è osservata una dinamica nettamente negativa: calati i consumi, diminuiti gli scambi commerciali internazionali, crollata la produzione, calati i redditi. Questa volta non ci sono dubbi: le parole crisi, recessione sono usabili a proposito, in modo distintivo. Siamo andati indietro: in recessione, appunto.
Il pil mondiale nel 2009 è previsto scendere dell’1,1%, quello dei Paesi sviluppati del 3,4%, quello dell’Italia del 5%. E le previsioni per Veneto e Friuli sono allineate alla media italiana, con un calo in ciascuna regione attorno al 5%.
La débacle non si è limitata all’Occidente: ha coinvolto – seppur con minor intensità - anche le cosiddette economie emergenti (ormai emerse) dei grandi paesi dell’ex Terzo mondo - Cina, Brasile, India - che hanno rallentato la corsa. Ma hanno continuato ad avvicinarsi ai nostri standard di reddito… visto che noi (Occidente) siamo andati indietro.
Il calo della domanda - vale a dire la contrazione di consumi, investimenti, importazioni - ha generato un formidabile calo nella produzione che, a sua volta, ha provocato una forte riduzione dei livelli occupazionali.
Milioni di posti di lavoro sono stati cancellati, e altri sono in pericolo, in Europa e in America. Si calcola che dall’inizio della recessione - dalla metà circa del 2008 - siano svaniti ad oggi (autunno 2009) quasi 3 milioni di posti di lavoro in Europa e quasi 7 milioni negli Stati Uniti. Di conseguenza è cresciuto il tasso di disoccupazione: oggi è prossimo al 10% negli Stati Uniti (15 milioni di disoccupati, il doppio che nel 2007); è sopra il 9% nell’area dell’euro.

Il confronto con il ‘29
Mai, dopo la seconda guerra mondiale, si era registrato in Occidente un simile disastro. Ciò ha spinto gli studiosi a confrontare l’attuale crisi con quella del ’29: e le analogie nel comportamento degli indicatori nei primi 15 mesi di crisi - dinamiche della produzione industriale e degli scambi mondiali - sono impressionanti. Di diverso, rispetto ad allora, c’è stata certamente la reazione dei governi e in particolare l’orientamento della politica monetaria e creditizia, questa volta intervenuta massicciamente per evitare l’insolvenza delle megabanche le quali, con gravi (ma impunite) imprudenze manageriali, avevano accumulato rischi eccessivi. Se lasciate fallire avrebbero trascinato con sé valanghe di risparmiatori e un generale crollo della fiducia. L’intervento dello Stato ha - almeno finora - impedito un corto circuito generale dei mercati. Invece nel ’29 le politiche economiche avviate dagli Stati hanno prolungato la crisi: le strette monetarie provocarono fallimenti a catena e una crescita paurosa della disoccupazione; il protezionismo - l’illusione di salvaguardare l’economia nazionale attraverso dazi alle importazioni e svalutazioni competitive - penalizzò le industrie più competitive, orientate alle transazioni commerciali e produttive internazionali; indebolì il potere d’acquisto dei consumatori, perché dazi e svalutazioni resero molto più costose le importazioni; creò un clima di crescente instabilità internazionale, premessa al drammatico conflitto bellico.

L’origine immediata della crisi
All’origine immediata di questa recessione c’è essenzialmente la crisi finanziaria deflagrata nel contesto anglosassone, inglese e statunitense, con l’emergere delle gravissime difficoltà di alcuni mega istituti bancari (Hsbc, Northern Rock, Lehman Brothers – quest’ultima aveva accumulato un debito netto pari a 600 miliardi, 1/3 circa dell’intero ammontare del debito dello Stato italiano).
Le radici della crisi sono riconducibili in sostanza alle pratiche nella gestione del credito prevalse in particolare negli Stati Uniti, con la concessione di mutui sulla casa per importi anche elevati a chiunque volesse procedere all’acquisto/ristrutturazione delle abitazioni. E mutui, peraltro, in grado di finanziare non solo la spesa per la casa ma anche i consumi “normali” perché anche questi “garantiti” dall’atteso incremento di valore dell’abitazione, in ragione di un mercato che tirava e quindi di un prezzo atteso di vendita in progressiva ascesa (rispetto a quello d’acquisto). La crescita di valore degli immobili ha funzionato da tappeto per un floridissimo mercato finanziario di titoli rappresentativi dei crediti collegati ai mutui, mercato che si pensava immunizzato dal rischio – connesso alla diversa solvibilità dei mutuatari – in quanto tale rischio era opportunamente suddiviso e mischiato in appositi pacchetti con altre tipologie di obbligazioni, meno rischiose. In tal modo si pensava che il rischio sistemico fosse sotto controllo e potenzialmente inoffensivo.
Ma ad un certo punto la domanda di abitazioni ha iniziato a flettere, per saturazione del mercato e, in generale, per il ritorno a condizioni di mercato favorevoli alla domanda. E’ quello che capita sempre ma che sempre si tende a dimenticare: l’avevano imparato già gli olandesi nel ‘600, al tempo della crisi finanziaria conseguente all’enorme e spropositato incremento di valore dei bulbi di tulipani. Cosa avevano imparato? Che per nessun bene il prezzo può crescere indefinitamente alimentato da aspettative unidirezionali.
Quando si è materializzata la flessione della domanda, come da manuale, essa ha trascinato con sé un diffuso peggioramento delle condizioni e delle prospettive economiche di un’ampia fascia di popolazione: che ha iniziato a consumare meno e, soprattutto, a non pagare le rate dei mutui.
Lo scoppio della bolla immobiliare ha fatto crollare il valore di borsa dei titoli bancari; a catena con questi è crollato tutto il mercato mobiliare.
I valori di borsa si sono ridotti al 30% di quelli pre-crisi. Negli attivi delle banche si sono generati buchi enormi, dovuti all’effetto congiunto dell’aumento delle “sofferenze” (crediti inesigibili) e del crollo di valore dei loro investimenti finanziari.
Si è perciò bloccato il credito, si sono rarefatti i mezzi di pagamento. E si è rapidamente coinvolta l’economia reale, vale a dire le fabbriche, gli uffici, il mondo della produzione. Fino a che i governi non si sono fatti carico in vario modo della situazione e non hanno fornito, a tassi ormai prossimi allo zero, liquidità in abbondanza per consentire alle banche di “ripulire” i loro bilanci. Così debiti in origine privati sono diventati pubblici. Per finanziarsi gli Stati hanno aumentato l’emissione di titoli di debito pubblico, che sono stati acquistati dalle banche, le quali in tal modo hanno migliorato la composizione dei loro attivi, riducendo il peso dei titoli rischiosi, vale a dire di quelli coinvolti nello scoppio della bolla immobiliare.

Altri fattori di crisi.
Lo squilibrio nei redditi; i cambiamenti geopolitici; l’economia immateriale. Ma non si è trattato solo di questo, vale a dire solo di una grossa crisi finanziaria. Almeno altri tre aspetti vanno ricordati, per coglierne il carattere non solo congiunturale.
Primo. La crescita dei consumi statunitensi grazie al credito facile è stata una sorta di scorciatoia rispetto alla strada “normale”, fisiologica, che fa dipendere la dinamica dei consumi dal reddito e dai salari. Grazie al boom dei valori delle case, i consumi americani sono aumentati senza che al contempo ci fosse alcuna crescita di rilievo dei salari medi. Si è trattato di una scorciatoia per tener alta la domanda (“drogata”, appunto), a fronte di una situazione sociale caratterizzata da una continua e forte polarizzazione dei redditi e dei salari, con la crescita degli addensamenti alle estreme: bassi redditi per immigrati e lavoratori poco qualificati; alti redditi per i lavoratori molto qualificati.
Un secondo fattore da menzionare, emblematico delle novità emergenti e denso di conseguenze, è collegato agli inediti squilibri globali. Non il tradizionale dislivello tra Nord (ricco) e Sud (povero), ma tra risparmiatori/esportatori (Cina in primis, Germania, Giappone, Russia, Arabia Saudita) e consumatori/debitori, paesi che - come si suol dire - “vivono al di sopra delle proprie possibilità”. Ricordiamo che il 70% del risparmio dei paesi con surplus della bilancia commerciale è “assorbito” dal deficit estero degli Stati Uniti. Il settore finanziario è riuscito per qualche anno a compiere il miracolo di rendere compatibile la convenienza degli uni a risparmiare (per finanziare i propri clienti) e degli altri a consumare. Ma il crack ha certificato l’insostenibilità già a medio termine di tale situazione e la necessità, ora, di un forte aggiustamento.
Come avverrà questo aggiustamento? Lo scenario “migliore” è quello di un’uscita graduale: la Cina che accelera la crescita interna (+consumi, +welfare) riducendo l’export e l’accumulo di dollari, divenendo anzi motore di domanda mondiale; gli Stati Uniti che riducendo i consumi e quindi le importazioni riducono il loro deficit estero e ritrovano risparmi, investimenti e produzione. Fa parte di questo scenario migliore anche attendersi un aggiustamento graduale dei cambi, con dollaro in calo e euro e yuan in crescita.
Siamo nel campo dell’auspicabile, non certo della previsione sicura. Anche altri scenari si possono prospettare: che la crisi venga giudicata transitoria e che si tenti di continuare come prima, almeno fino alla prossima bolla speculativa; oppure che, come il Giappone nello scorso decennio, ci si avviti in una spirale deflazionistica in cui le attese di prezzi calanti frenano ogni iniziativa; o ancora che, al contrario, una fiammata inflazionistica - tipo quella che negli anni ’70 ha ridotto il valore delle scorte di dollari accumulate dall’Europa negli anni ’50 e ’60 - faccia ora altrettanto a svantaggio della Cina (le riserve cinesi in dollari ammontano ad oltre 2.000 miliardi di dollari, circa il 15% del pil degli Stati Uniti).
C’è infine un terzo aspetto da ricordare. Che contribuisce a spiegare perché il mondo dei valori economici sia sempre più instabile. Questo terzo aspetto riguarda il valore della conoscenza, dell’informazione, della comunicazione, i cosiddetti “asset intangibili”, il cui costo di riproduzione tende a zero. Quanto più il paniere della nostra spesa è composto da servizi immateriali (informazioni, conoscenze, comunicazioni) tanto più è esposto a dinamiche di valori altalenanti conseguenti alla difficoltà intrinseca di “proteggere” la stabilità del prezzo di prodotti facilmente replicabili e diffondibili… fino a costo zero (guardiamo a tutto ciò che succede con la musica, con il software etc.). La conoscenza costa molto produrla ma, una volta prodotta, è difficile detenerla (se non incorporata in macchine) ed è facile che circoli a costi e ricavi pari a 0. Questo non è un aspetto congiunturale, non è legato alle vicende della finanza, è piuttosto correlato all’evoluzione tecnologica e sociale – al complessivo passaggio dal fordismo al post fordismo - ma è il fattore moltiplicativo, per alcuni il vero fattore rilevante, di un contesto dove l’incertezza e il rischio sono sovrani.

Concludendo la diagnosi: una crisi come tutte le altre?
Un punto di vista minimalista dice che questa è una crisi come tutte le altre, solo un po’ più intensa quantitativamente. Che è fisiologico per il capitalismo andar su e giù. E che tutto si aggiusterà, con un po’ di pazienza e tanto ottimismo.
Un opposto punto di vista radicale dice che niente sarà come prima, che dovranno cambiare non solo le politiche e le regole della finanza ma anche i comportamenti di tutti: questo secondo punto di vista qualche volta suscita l’impressione che si stia scambiando la crisi con la rivincita dell’etica.
Tendo a pensare che questa crisi avrà effetti importanti, ma non aspettiamoci troppi incentivi alla conversione negli stili di vita. Non bastano i vincoli se non si vogliono (o non si è in grado di) aprire gli occhi.

Qualche numero sull’Italia e sul Nord Est
E l’Italia? E il Nord Est? Siamo troppo interconnessi, legati al resto del mondo per non essere stati intaccati profondamente. La crisi partita da Wall Street è arrivata in pieno e velocemente anche all’economia delle nostre piccole imprese, dei nostri distretti industriali, attraverso tre cinghie di trasmissione.
La prima è stata la riduzione della domanda globale e quindi degli sbocchi per le nostre esportazioni. Veneto e Friuli insieme hanno esportato per 24 miliardi nei primi 6 mesi del 2009 contro i 30 miliardi realizzati nei primi sei mesi del 2008: - 20%.
La seconda cinghia operativa è arrivata attraverso le difficoltà di accesso al credito e il mutamento delle aspettative degli imprenditori: ciò ha comportato un forte calo negli investimenti e quindi nella domanda di beni intermedi.
Infine anche le imprese che producono per il mercato finale hanno dovuto fare i conti con la caduta dei consumi.
Meno export, meno investimenti, meno consumi, vuol dire alla fine meno occupazione. Rispetto ai livelli complessivi di occupazione pre-crisi si può stimare una caduta in Veneto e Friuli di almeno 70-80.000 unità, ma solo a fine anno sarà possibile avere un bilancio compiuto. Di certo sono stati interessati, soprattutto nella prima fase, in particolar modo i lavoratori del settore secondario (manifattura e costruzioni): quindi maschi e spesso stranieri. Sono aumentati i licenziamenti: nei primi 9 mesi del 2009 sono oltre 30.000 i lavoratori interessati in Veneto e Friuli da un licenziamento individuale o collettivo che sono stati inseriti nelle apposite liste di mobilità, più del doppio rispetto alle cifre dell’anno precedente. Sono aumentate le sospensioni: nessuno sa di preciso quanti lavoratori in Veneto e Friuli siano stati messi, per qualche periodo, in cassa integrazione: si può azzardare una stima, per il 2009, di un numero non distante dalle 100.000 unità. Sono diminuite le assunzioni: si è ridotto di molto il ricorso ai contratti a tempo determinato; si è rinunciato a sostituire i lavoratori che si sono dimessi o sono andati in pensione. Sono diminuite le trasformazioni da contratti di apprendistato o a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato. La riduzione delle assunzioni e delle trasformazioni ha reso difficile l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro.
E’ ovvio che, come conseguenza di tutto quanto detto, sono cresciuti i disoccupati: da 103.000 nel secondo trim. 2008 a 137.000 nel secondo trim. 2008, il 30% in più. In Veneto nei primi 9 mesi sono state presentate quasi 100.000 domande per indennità di disoccupazione da parte di persone che sono state licenziate o che hanno concluso un lavoro dipendente a termine. Ma non tutti i licenziati, non tutti i lavoratori a termine hanno i necessari requisiti - assicurativi e contributivi - per accedere all’indennità di disoccupazione.
Le previsioni che circolano parlano di un’eventuale ripresa comunque senza ripresa dell’occupazione. Ci si aspetta per il 2010 una situazione molto probabilmente ancor più difficile sul lato del mercato del lavoro. Anche perché il forte ricorso alle sospensioni, alla cassa integrazione, ha certamente limitato i licenziamenti, e quindi la disoccupazione, ma vi è un forte punto interrogativo su quanto potrà protrarsi questa situazione.
Un’aspettativa positiva è alimentata dalla constatazione che i Paesi - come Italia, Germania e Giappone - dove la caduta dell’attività economica è stata maggiormente collegata a quella della domanda mondiale possano beneficiare dei segnali positivi che arrivano dalle economie emergenti ed essere dunque avvantaggiati nella ripresa dell’attività produttiva rispetto ai Paesi - come Stati Uniti, Gran Bretagna e Spagna - la cui situazione di crisi è collegata soprattutto alle vicende interne del settore finanziario e di quello delle costruzioni.

Le specificità dell’Italia
Ci sono alcune peculiarità importanti che differenziano l’Italia rispetto ad altri Paesi.
Da un lato alcuni problemi strutturali hanno origine da ben prima della crisi: non è la crisi a crearceli anche se, certo, non aiuta a risolverli. In primis il riferimento è alla questione del debito pubblico con tutto quello che vuol dire: alti livelli di evasione, debolezza dello Stato, carenza di virtù civiche.
Altri problemi risultano invece in Italia attenuati: le famiglie italiane sono, in media, incomparabilmente meno indebitate di quelle anglosassoni e quindi la crisi dei redditi collegata alla perdita dei posti di lavoro può essere meglio assorbita da un tessuto familiare che relativamente funziona ancora, anche se meno di un tempo, come il primo ammortizzatore sociale.

Verso la conclusione
Viviamo una fase difficile ma quanto meno interessante. E questa crisi può essere utile per recuperare tutti gli interrogativi su una storia che si fa, che non è già data, che non è un processo lineare di crescita continua degli standard di vita.
Quello che dobbiamo fare è allo stesso tempo nuovo, sotto il profilo politico-sociale: pensare un mondo in cui l’Occidente non è l’unico centro, e vecchio, sotto il profilo etico: essere buoni, rispettare i dieci comandamenti.

Le sfide per i decisori pubblici
Molte delle decisioni cruciali “chiamate” dalla crisi attengono alla sfera pubblica: quale rapporto Stato/mercato, quale regolamentazione del credito e della finanza, quale politica monetaria, come pilotare gli squilibri globali, come intervenire sul fronte della disoccupazione. E’ chiamata in causa dunque un’accentuata responsabilità di chi agisce direttamente nel campo politico e nei dintorni, di chi in qualsiasi modo contribuisce a formare le opinioni che poi diventano decisioni.

Alcune utili consapevolezze da alimentare. Sulle aspettative e su uno sviluppo di maggior “qualità” (meno beni e più servizi?) (1)
Ma ne consegue la necessità di una maggior consapevolezza anche sul piano dei comportamenti personali, direi della psicologia sociale che tutti contribuiamo a formare.
Una prima consapevolezza da formare come uomini e donne (occidentali): è forse opportuno che non alimentiamo e non culliamo aspettative di ulteriore facile sviluppo quantitativo. Alcune stime ci dicono che ci vorranno anni per ritornare al livello di reddito/consumi del 2007. Siamo arrivati ad un punto tale che dobbiamo dedicarci alla qualità, intesa anche come conservazione/miglioramento di quanto abbiamo (istruzione, Welfare) - e non è facile -. E’ una sfida in particolare per le nuove generazioni: che erediteranno molto, un gran patrimonio, ma molto anche da ristrutturare per mantenerlo adeguatamente funzionante. Del resto molti cambiamenti stanno interessando la struttura interna dei consumi e della produzione, cambiamenti dettati in particolare da esigenze di lungo periodo, connesse ai mutamenti demografici, ai problemi di sostenibilità ambientale, alla crescita dell’istruzione. In questo orizzonte, la crisi non è interpretabile come una crisi da saturazione dei bisogni. E lo sbocco utile non è quello della decrescita: il mondo è pieno di bisogni, anche primari, insoddisfatti; è pieno di domande nuove e originali. Anche l’Occidente e le nostre società sono piene di richieste di miglioramento nella qualità dell’ambiente, delle infrastrutture e dei servizi (sanità, welfare, cultura). Non c’è una crisi generale “da domanda”. Non ci manca, non ci mancherà il cosa fare, anche se dobbiamo riconoscere che abbiamo già molto. Si tratta, piuttosto, di dare e cercare tempo e strumenti per rispondere alle nuove esigenze economiche, tecnologiche e sociali. In questa operazione di aggiustamento strutturale la politica può fare molto, ma non tutto. Alla fine, l’innovazione può dare risultati utili e affermarsi come fenomeno sociale solo attraverso l’investimento imprenditoriale. E affinché questo investimento possa esprimersi occorrono infrastrutture moderne, mercati ben regolati e un più equo sistema di welfare.

Sul valore del lavoro (2)
Una seconda consapevolezza che possiamo coltivare è relativa ad un utile pregiudizio sul rapporto tra reddito/ricchezza (a favore del reddito). La crisi finanziaria ha distrutto molta ricchezza (mobiliare); senz’altro tale contrazione è stata più consistente della riduzione dei redditi correnti da lavoro. Alla fine può determinarsi un qualche ri-equilibrio (nel senso almeno di un minor squilibrio) nei rapporti tra ricchezza/rendite da un lato e redditi/salari/stipendi dall’altro. Questa può essere la faccia positiva della crisi, l’autocorrezione di un sistema in cui, come tutte le ricerche internazionali ci mostrano, la disuguaglianza sociale tende continuamente a crescere e il valore del lavoro a scendere (rispetto a quello delle rendite).

Sui doveri civici di solidarietà e sulla sussidiarietà (3)
Una terza consapevolezza è relativa ai doveri di solidarietà. Innanzi tutto quella “grigia” che si esprime attraverso la redistribuzione operata dallo Stato e attraverso gli istituti del Welfare (contributi obbligatori, assicurazioni obbligatorie etc.). E’ opportuno ricordarci che nessuna solidarietà, a livello locale, di piccola comunità o di reti personali avrà mai le dimensioni e la forza della redistribuzione operata dallo Stato attraverso le tasse e i trasferimenti sociali: detto in altre parole, è plausibile pensare che nessuno darebbe in solidarietà l’equivalente di ciò che oggi non possiamo non fare, dato il ruolo dello Stato. Per quanto sia o appaia poco gratificante, dobbiamo essere consapevoli che la prima solidarietà è l’adempimento dei doveri civici che discendono dalla cittadinanza. In troppi si sentono curiosamente in credito rispetto alla collettività - sulla base di una addomesticata contabilità personale - come se pensioni, scuole ed ospedali (che costeranno sempre di più) venissero dal cielo. Accanto alla solidarietà “grigia” vanno sviluppate, è chiaro, tutte le forme della solidarietà che possono esprimersi alle scale territoriali più diverse: la fase di crisi implica che la solidarietà non è mai troppa.

giovedì 15 ottobre 2009

Dal GAZZETTINO, Mercoledì 14 Ottobre 2009

Occorre un radicale cambiamento a livello intellettuale ed etico per poter uscire da una situazione di grave crisi, che non è solo economica, ma prima di tutto è culturale e sociale. Questa è la convinzione espressa dai relatori intervenuti durante la prima serata della Settimana Sociale, dedicata alla riflessione sull’attuale crisi: uno sguardo in profondità. Bruno Anastasia, economista, monsignor Paolo Doni, teologo, e il vescovo della diocesi di Concordia - Pordenone, mons.Ovidio Poletto, sono stati unanimi nell'affermare la necessità di un ruolo più responsabile e attivo nell'ambito sociale e politico, da parte dei cristiani e delle persone di buona volontà. «L'attuale crisi economica - ha dichiarato l'economista - ha precise responsabilità, non dipende dal caso. Vanno pertanto ripensati i rapporti tra lo stato e la regolamentazione del mercato, la differenza dei guadagni tra le rendite immobiliari e i salari legati al lavoro, nonchè la redistribuzione delle risorse per un welfare più equo. Anche i comportamenti personali vanno ripensati in un'ottica di minor consumismo e di maggiore solidarietà. A livello imprenditoriale è importante puntare sull'innovazione».
Il richiamo alla responsabilità concreta di chi è chiamato a prendere decisioni e ad agire a livello politico è stato forte e incisivo. In particolare mons. Poletto ha ricordato che è dovere del cristiano non limitarsi ad una fede intimistica, ma sviluppare la carità calata nel sociale e nella giustizia. «La riflessione sul bene comune - ha detto il vescovo - non è facoltativa, ma è propria di ogni uomo e cristiano. Occorre più attenzione alla res pubblica ispirandosi ad un principio di gratuità e di fraternità. La diocesi è fortemente impegnata su questo versante sia a livello formativo che pratico, come la recente istituzione di un fondo di solidarietà per famiglie in difficoltà». Un forte accento è stato posto anche sulla dimensione globale. «Dalla crisi si esce - ha dichiarato Anastasia - se si supera una visione secondo la quale l'Occidente sarebbe il centro del mondo».
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mercoledì 14 ottobre 2009

dal MESSAGGERO DI PORDENONE, Martedì 13 ottobre 2009

«La crisi mondiale è frutto di scelte precise»
Sala congressi della Fiera gremita ieri per la prima serata della settima edizione della Settimana sociale della diocesi di Concordia-Pordenone. Attraverso le parole dell’economista Bruno Anastasia e del teologo monsignor Paolo Doni, il pubblico ha potuto gettare uno sguardo in profondità (come recitava il titolo) sull’attuale crisi economica. Il tutto, per delineare una nuova “agenda di speranza” per il futuro, anche tenendo presente l’ultima enciclica di Benedetto XVI “Caritas in veritate”, citata dal vescovo Ovidio Poletto nel suo saluto introduttivo. «Siamo chiamati – ha detto il vescovo – a una sfida di un protagonismo civile e cristiano nella nostra società: mi pare che, in fondo, sia questo che emerge dalle parole del Papa. Siamo tutti responsabili di tutti, ci vuole attenzione e partecipazione sociale. Tutti i cittadini, soprattutto se sono cristiani, devono avere una partecipazione più sentita alla “res publica”. Un principio di gratuità e fraternità universale per evidenziare che la globalizzazione deve essere vissuta quale denominatore comune di condizione umana. C’è una corresponsabilità di tutti per il bene comune, senza delegare tale responsabilità agli altri: la nostra diocesi sta investendo in questo». Lo sviluppo economico occidentale degli ultimi anni è oramai un ricordo: questo il fulcro della serie di dati proposti da Anastasia, il quale ha fotografato la crisi sul fronte dei suoi danni sociali e umani. «Solo in Friuli e in Veneto – ha spiegato – quest’anno si stimano 70-80 mila posti di lavoro in meno, soprattutto tra gli uomini e in special modo tra gli stranieri. Il 2010 potrebbe rivedere una ripresa economica, ma non una ripresa nel mercato del lavoro: non ci saranno buone nuove per l’occupazione. Ci sono comunque i lati positivi della crisi. Come la solidarietà cosiddetta grigia – ha detto – legata alla redistribuzione effettuata dallo Stato attraverso tasse e trasferimenti: dobbiamo far crescere la consapevolezza dell’utilità di questi mezzi. Ci sono, poi, le solidarietà più “piacevoli”, che non sono mai troppe, soprattutto a livello territoriale, legate al dono e alla gratuità. E infine, il riequilibrio dei compensi lavorativi dato dalla crisi». A coordinare i vari interventi, Stefano Franzin, del comitato organizzatore della Settimana, il quale ha poi introdotto monsignor Doni. «Il bene delle persone e della società non è pensabile al di fuori di carità e verità – ha spiegato il prelato citando il Papa -. Non siamo di fronte a una fatalità, ma a scelte, forse non di persone singole, ma a scelte precise che hanno portato alla crisi. L’ideologia tecnocratica è identificabile in tutto il mondo: da un lato accumulo continuo, dall’altro povertà. Cresce la ricchezza mondiale assoluta, ma non è distribuita: chi è ricco diventa sempre più ricco». Negli incontri di domani e di venerdì sera, ulteriori approfondimenti con illustri relatori. Davide Francescutti

martedì 13 ottobre 2009

dal MESSAGGERO DI PORDENONE, Lunedi 12 ottobre 2009

«Presenti e solidali con la realtà della gente»

Questo l’invito del vescovo monsignor Ovidio Poletto alla settimana sociale della diocesi.

La diocesi di Concordia-Pordenone promuove per la settima volta la sua settimana sociale con lo stesso intendimento con cui dal 1997 ha cominciato a celebrarla con cadenza biennale. Vuole offrire, non solamente ai fedeli cristiani, ma a tutte le persone che intendono partecipare, una occasione di approfondimento dei problemi che costituiscono oggi l’emergenza non soltanto del nostro territorio e del nostro Paese, ma di tutto il mondo. La crisi economica, la conseguente difficoltà di mantenere il lavoro o di averlo per la prima volta, la esigenza di ricorrere a una straordinaria mobilitazione di solidarietà, la necessità di una partecipazione più forte di tutti alla politica per garantire un bene comune che oggi richiede più che mai una mobilitazione generale. Questi i temi dei tre giorni di incontri che saranno analizzati da personaggi particolarmente competenti sulle singole questioni, anche per individuare orientamenti concreti di soluzione e quindi di speranza. Come è nella tradizione delle nostre settimane, sarà dato un apporto specifico, per l’analisi e le prospettive, attraverso i documenti della dottrina sociale della Chiesa, da tutti riconosciuta di grande autorevolezza per comprendere e affrontare i problemi del nostro tempo. In particolare, in questi mesi, ha suscitato grande interesse nel nostro Paese e in tutto il mondo la lettera enciclica di Benedetto XVI “Caritas in veritate”, promulgata alla fine di giugno di quest’anno e che ci verrà autorevolmente illustrata dal vescovo di Ivrea monsignor Arrigo Miglio presidente del comitato delle settimane sociali nazionali. La nostra iniziativa vuole anche essere un incoraggiamento a continuare su tutta una linea di azione ormai da anni promossa nel territorio della diocesi di Concordia-Pordenone. Essere presenti e solidali con la realtà della gente, sentirsi “tutti responsabili di tutti”, come esorta ancora l’attuale Pontefice sulla scia del suo predecessore Giovanni Paolo II. Uscire dalle visioni settoriali, per quanto importanti, per condividere il più possibile i problemi di tutti, specialmente di chi ha più bisogno. Sottrarsi dall’atteggiamento di passività rassegnata e di lamento inefficace, per fare tutti la propria parte anche come cittadini, a cominciare dal piccolo territorio in cui si vive la propria quotidianità. Avere un sussulto di impegno, speciamente se si vuole essere davvero cristiani, per animare la società civile con la propria responsabilità convinta e coinvolta. Potrà forse apparire eccessiva la nostra aspettativa da questa settimana. Ma sono convinto che occorre credere fermamente alle grandi prospettive di speranza per poter cambiare in meglio le situazioni, con l’aiuto di Dio e il concorso di tutti. E anche con l’impegno specifico della diocesi di continuare oltre la settimana con iniziative di formazione e orientamento per una cittadinanza più responsabile da parte dei cristiani, assieme al più gran numero di persone di buona volontà.

dal MESSAGGERO DI PORDENONE, Lunedi 12 ottobre 2009

Un progetto di speranza per andare oltre la crisi


“Un’agenda di speranza per il futuro: economia, lavoro, politica e presenza dei cristiani” è il titolo della VII settimana sociale della diocesi di Concordia-Pordenone, che prevede tre incontri, oggi, mercoledì e venerdì, nell’auditorium di Pordenone Fiere, in viale Treviso. La settimana sociale rappresenta un appuntamento qualificato di formazione proposto a tutti i cristiani su importanti tematiche connesse alla dottrina sociale della Chiesa. Quest’anno i temi legati all’economia e al lavoro si fanno stringenti, tanto più dopo la pubblicazione dell’enciclica “Caritas in veritate”, di chiaro contenuto sociale. I cristiani vogliono interrogarsi su quali aggiustamenti di rotta adottare, anche dal punto di vista morale, valoriale, sociale e politico, per superare la crisi. La settima edizione della settimana sociale inaugura un nuovo canale di comunicazione (http://settimanasocialepn.blogspot.com) tramite il quale si sono raccolte le riflessioni e le proposte utili a disegnare un progetto di speranza per il futuro, oltre la semplice attesa di una ripresa economica senza novità sostanziali. Tale percorso si concluderà con la celebrazione della settimana sociale nazionale che si terrà nell’autunno 2010 a Reggio Calabria. Questo il programma. Stasera, alle 20.30, il tema sarà “L’attuale crisi: uno sguardo in profondità”, con gli interventi di Bruno Anastasia, economista, e di monsignor Paolo Doni, teologo, esperto di magistero sociale. L’introduzione sarà del vescovo, monsignor Ovidio Poletto, mentre la serata sarà coordinata da Stefano Franzin, del comitato diocesano per la settimana sociale. Mercoledì, alle 20.30, il tema sarà “Caritas in veritate”, la prima enciclica sociale di Benedetto XVI, che sarà presentata da monsignor Arrigo Miglio, vescovo di Ivrea e presidente del comitato scientifico e organizzatore delle settimane sociali nazionali. Coordinerà Nicola Fadel, presidente delle Acli provinciali di Pordenone. Venerdì, alle 20.30, si parlerà di “Nuove presenze e nuove idee nel lavoro e nell’economia”: si confronteranno Roberto Siagri, presidente e amministratore delegato della Eurotech, e Giorgio Santini, segretario confederale della Cisl. Coordinerà Chiara Mio, professore associato nel dipartimento di Economia e direzione aziendale dell’università Ca’ Foscari di Venezia.

dal GAZZETTINO, Lunedi 12 Ottobre 2009

La Diocesi chiama i fedeli a confrontarsi sull’economia
PORDENONE
Economia e lavoro nell’agenda dei cristiani. La Diocesi di Concordia-Pordenone da oggi e per tutta la settimana, affronta il tema del futuro. La settimana sociale rappresenta un appuntamento di formazione su temi connessi alla dottrina sociale della Chiesa. Quest’anno, in un momento di crisi come quello che coinvolge il mondo intero, i temi legati all’economia e al lavoro sono quelli fondamentali. La settimana sociale permetterà innanzitutto ai laici cristiani impegnati in ambiti diversi della vita sociale di incontrarsi e di riflettere assieme. In questo senso le settimane sociali sono laboratori di cultura e di orientamento per la Chiesa. Gli incontri - negli auspici della Diocesi - dovranno anche servire da occasione «di dialogo profondo tra Chiesa e tutti coloro che hanno a cuore le sorti del bene comune». Questo il programma che prende il via oggi. Stasera, alle 20.30, "L’attuale crisi: uno sguardo in profondità" con gli interventi di Bruno Anastasia, economista e di Paolo Doni, teologo, esperto di magistero sociale. L’introduzione sarà del vescovo Ovidio Poletto mentre la serata sarà coordinata da Stefano Franzin. Si proseguirà mercoledì 14 con il tema "Caritas in veritate" con Arrigo Miglio, vescovo di Ivrea e si concluderà il 16 ottobre con "Nuove presenze e nuove idee nel lavoro e nell’economia" con Roberto Siagri, imprenditore, Giorgio Santini, sindacalista e Chiara Mio, economista.

martedì 6 ottobre 2009

Riflessione sulla situazioni socio-economica della provincia di Pordenone

di Nicola Callegari (Consigliere Provinciale UDC)

1. Secondo Lei, quali insegnamenti trarre dall'attuale crisi economica?
L'attuale crisi economica fa emergere l'impossibilità dell'esistere di un'economia senza un'etica:mancando l'etica, l'economia cessa d’essere libera e cessa di essere tale (la crisi effettiva non è nata oggi, è nata con il boom economico degli anni '60 e '70). Nella ricerca delle cause non dobbiamo fermarci ai dettagli tecnici, ma ricordare la cosa più importante: l'economia è gestita dall'uomo e dalla sua autonomia. La crisi ci dimostra come l'attività finanziaria spesso sia guidata da logiche puramente autoreferenziali ed egoistiche, prive della considerazione del bene comune e quindi dell'altro.

2. Come giudica oggi la difficoltà nelle persone di riconoscere il senso di appartenere ad una comunità e di agire oltre il proprio interesse?
Innanzitutto, va sottolineata la centralità della persona, la risorsa umana come valore determinante. Va riscoperta, sia nel mondo economico, sia all'interno delle nostre comunità. La necessità di bene comune, e quindi dell'essere veramente buoni, rende perché aumenta la fiducia e ravviva il senso di comunità necessario ad agire oltre il proprio interesse. L'esigenza è di ripartire dalla persona perché se non so chi è l'uomo, il senso di appartenere ad una comunità è privo di basi.

3. Si può ancora parlare di cultura dell'accoglienza, nel nostro territorio, che vanta di fatto un ottimo livello di convivenza con gli stranieri, mentre si esprimono sempre di più opinioni contrarie?
A tal proposito ritengo vada assolutamente richiamata l'ultima enciclica di Benedetto XVI che affronta il tema dello sviluppo e ci mette in guardia circa “l’esclusivo obiettivo del profitto”, il quale “senza il bene come fine ultimo, rischia di distruggere ricchezza e creare povertà”. Alcuni elementi negativi, come ad esempio: una finanza speculativa; flussi migratori provocati e poi mal gestiti; lo sfruttamento delle risorse della terra; la delocalizzazione delle produzioni di basso costo da parte dei Paesi ricchi, provocano una crescita della ricchezza mondiale in termini assoluti, ma influiscono aumentando le disparità e comportano la riduzione delle reti di sicurezza sociale, mettendo in pericolo particolarmente i diritti dei lavoratori, deplorando anche i tagli alla spesa sociale. Lasciare i cittadini impotenti di fronte a tutta questa serie di rischi (che la storia in parte già ci insegna) influisce sui rapporti di solidarietà sociale nei confronti dei più deboli portando a nuove divisioni ed a danni sconosciuti. C'è persino chi, nel nostro piccolo benessere mette in dubbio l'unità italiana, la nostra bandiera, il nostro inno senza guardare a ciò che appunto la storia non molto lontana ci insegna.

4. Esiste ancora il cittadino che costruisce relazioni, che agisce secondo dei valori per il bene comune?

E' sempre esistito. Non dobbiamo nasconderci dietro al timore che “tutto va male ed il bene non lo fa più nessuno”. Rimanendo sempre in tema di economia mi sento di menzionare realtà come la finanza etica, il non profit, il microcredito. Dopo gli scandali del capitalismo americano e nostrano, si è ripreso in modo sempre più sostanzioso a parlare di etica, onestà, lealtà, sacrificio, magnanimità, umiltà. Questi termini ritornano ad essere sempre di più mission aziendali ma non solo; riempiono il “mondo del business” sperando che non sia "un mondo di busiers" (“bugiardi”, giocando con il nostro dialetto). Questo perché, ora più che mai, si ricomincia a rendersi conto che la dimensione fondamentale per ogni rapporto è relazionale, umana, diretta. Quindi qualsiasi tipo di sviluppo, se vuole essere davvero umano, deve far spazio al principio di gratuità, di dono. Senza forme di solidarietà e reciproca fiducia non si possono costruire nuove e vere relazioni (vedi il successo dell'Italia dal dopo guerra)

5. Quale posto hanno le fragilità, le vulnerabilità sociali nella nostra comunità?
Benedetto XVI lo scorso primo gennaio, indicando come esempio Maria, ebbe a dire nella sua omelia: "Dio si era fatto povero per noi, per arricchirci della sua povertà piena d'amore, per esortarci a frenare l'ingordigia insaziabile che suscita lotte e divisioni, per invitarci a moderare la smania di possedere e ad essere così disponibili alla condivisione e all'accoglienza reciproca". Penso che queste parole diano un senso basilare a quali siano i limiti le vere ricchezze da accumulare, il resto crea fragilità e vulnerabilità sociale nelle comunità.

6. Quali sono, secondo Lei, i valori dai quali partire oggi per recuperare speranza e fiducia nel futuro?
Benedetto XVI ha ragione a presentare l'enciclica sociale "Carità nella verità" come la principale forza propulsiva per il vero sviluppo. E’ sempre più necessaria la guida della carità nella verità, nella società, nella comunità. Come già anticipavo, valori come "onestà, lealtà, sacrificio, impegno, magnanimità, umiltà" diventano fondamenta di speranza e fiducia sulle quali ripartire.

7. Come promuovere la costruzione di una società, a partire dalla nostra comunità, nella quale la persona sia al centro della convivenza civile?

Come comunità è necessario mobilitarci verso esiti umani perché la globalizzazione ci rende vicini ma non ci offre quel senso di fraternità che sta alla base delle stesse comunità, intese come famiglie allargate. Se ragioniamo in ottiche di fraternità , vogliamo il bene dell'altro e non solo il nostro, questo va però cercato innanzitutto nella volontà, nel pensiero degli uomini e dei popoli.

8. Quali sono i settori economici sui quali puntare per andare oltre la crisi? (per gli imprenditori: come la Sua impresa sta affrontando questo momento di crisi? Guardando con fiducia al futuro, quali le previsioni sui tempi di ripresa? Ci sono prospettive per i più giovani?)
Bisogna investire sulla persona, sulle sue capacità, sulla sua creatività e rimettere al centro l'etica e la vita in senso lato.

9. Quale senso rinnovato dare oggi al lavoro e quale motivazione recuperare sul piano della solidarietà tra lavoratori?
Sicuro che il lavoro nobilita l'uomo, ritengo che il senso rinnovato da dare oggi come ieri e le motivazioni da recuperare sul piano della solidarietà sono racchiuse negli articoli 3 e 4 della Costituzione Italiana che dice: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.


Dodici domande a Marco Barbarin (Amministratore Delegato Intermek) sulla situazione socio-economica di Pordenone

1. Secondo Lei, quali insegnamenti trarre dall’attuale crisi economica?
Mi ricordo una frase di Orazio: “est modus in rebus”. Ritengo che l’attuale crisi segua un periodo di eccessiva euforia finanziaria/produttiva; potrà portare qualche insegnamento solo se recupereremo un approccio più moderato al perseguimento del benessere.

2. Come giudica oggi la difficoltà nelle persone di riconoscere il senso di appartenere ad una comunità e di agire oltre il proprio interesse?
E’ grave, soprattutto perché facente parte di un più generale smarrimento di senso. L’appartenenza alla comunità e l’interesse collettivo sono concetti complessi un po’ dimenticati ma che dovremmo sforzarci di frequentare più spesso.

3. Dal Suo particolare punto d’osservazione, come la crisi sta influendo sui rapporti di solidarietà sociale nei confronti dei più deboli?
Vedo che le persone reagiscono in modo diverso alle difficoltà: alcuni aumentano l’impegno sociale/solidaristico mentre altri si chiudono in un atteggiamento egoistico. A qualche scivolone nell’intolleranza pongono rimedio le istituzioni, a mio avviso, recentemente, più reattive in quest’ambito.

4. Esiste ancora il cittadino che costruisce relazioni, che agisce secondo dei valori per il bene comune?
Certo, ci sono molti cittadini che agiscono per il bene comune, solo che non perdono occasione di “costruire” ed evitano la “pubblicità”. Come si suole dire, “il bene non fa rumore”; sembra non ce ne siano più ma, se così fosse, saremo già alla disfatta della società, e cosi non è.

5. Come ritrovare il senso del limite in relazione all’accumulo senza beneficio della società?
Questo è un tema enorme, gli stessi governanti e filosofi non hanno ricette efficaci. Credo che tutto debba essere valutato nella dimensione personale più che sociale, non credo che la società possa sviluppare un senso del limite senza compromettere il libero arbitrio. La soluzione deve essere individuale.

6. Quale posto hanno le fragilità, le vulnerabilità sociali nella nostra comunità?
Credo che queste sensazioni collettive debbano essere interpretate come un campanello d’allarme più che mancanza di sicurezza sociale. Sono richieste d’aiuto che la comunità amplifica per sollecitare le persone alle proprie responsabilità di cittadini.

7. Si può ancora parlare di cultura dell’accoglienza, nel nostro territorio, che vanta di fatto un ottimo livello di convivenza con gli stranieri, mentre si esprimono sempre di più opinioni contrarie?
Al di là di quanto ci viene mostrato il più delle volte dai mezzi di comunicazione, nel nostro paese c’è una forte componente di integrazione, basti pensare a quanta forza lavoro immigrata viene impiegata nelle nostre aziende e a quanto sia limitato nelle scuole il numero di classi non multietniche. Opinioni contrarie, contrarie alla cultura dell’accoglienza, devono tenere in considerazione la nostra Costituzione, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili della persona, e la Carta dei valori del 2007, che riconosce e garantisce i diritti di cittadinanza e d’integrazione.
Questo rappresenta una grande protezione per tutte le persone che vivono e condividono la nostra cultura.

8. Quali sono, secondo Lei, i valori dai quali partire oggi per recuperare speranza e fiducia nel futuro?
L’Italia è uno dei Paesi più antichi d’Europa, espressione della cultura classica greca e romana. Si è sviluppata nell’orizzonte del cristianesimo e ha contribuito al riconoscimento dei principi di libertà e di giustizia, principi fondamento della Costituzione e delle istituzioni europee. Credo che nel nostro passato ci siano sufficienti esempi e spunti per avere speranza; il concretizzarsi di questa dipende solo dal nostro impegno.

9. A che punto siamo con la costruzione di una città aperta e abitabile per tutti?
Non ho la visibilità necessaria per rispondere a questa domanda; sicuramente le istituzioni sono impegnate costantemente in quest’opera di costruzione, attraverso lo sviluppo di azioni che consentano un reale inserimento di tutti nel tessuto sociale, mediante il coinvolgimento di tutti allo scopo di prevenire ogni forma di discriminazione, sostenendo i diritti di cittadinanza sociale soprattutto per minori, adolescenti, donne e richiedenti asilo.

10. Come promuovere la costruzione di una società, a partire dalla nostra comunità, nella quale la persona sia al centro della convivenza civile?
La società d’oggi sembra apprezzare più il consumo che la partecipazione. Un passo importante e’ proprio quello di re-impadronirsi della propria identità. Credo che sia sufficiente questo per poter affermare che la persona e’ il centro della convivenza civile.

11. Quali sono i settori economici sui quali puntare per andare oltre la crisi? (per gli imprenditori: come la Sua impresa sta affrontando questo momento di crisi? Guardando con fiducia al futuro, quali le previsioni sui tempi di ripresa? Ci sono prospettive per i più giovani?)
La risoluzione della crisi e’ un processo complesso che coinvolge principalmente gli Stati e le politiche economiche. Più localmente, la nostra tradizionale vocazione al lavoro unita ad uno spirito innovativo, credo, che ci porterà presto fuori da questo tunnel. Personalmente credo molto nello sviluppo di nuove idee nel settore energetico/fonti rinnovabili. All’interno della nostra Azienda stiamo pensando ad un progetto in quest’ambito, ma per ora sono solo idee.

12. Quale senso rinnovato dare oggi al lavoro e quale motivazione recuperare sul piano della solidarietà tra lavoratori?
La motivazione è un elemento chiave della scelta professionale perché è fondamentale per affrontare gli ostacoli e per raggiungere gli obiettivi. La motivazione è tanto più forte quanto più valore ha l’obiettivo. Capire il significato profondo, la missione, la finalità della propria attività lavorativa, permette di costruire un obiettivo professionale alimentato da una forte motivazione, il carburante che garantisce l’impegno per raggiungerlo.